Recensione: Prisoners in paradise

Di paolinopaperino77 - 7 Ottobre 2002 - 0:00
Prisoners in paradise
Band: Europe
Etichetta:
Genere:
Anno: 1991
Nazione:
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86

L’ultimo vero e proprio album degli Europe (seguirà infatti una raccolta) è rappresentato da questo disco uscito nel ‘91/’92 e caratterizzato da una lunga gestazione, causata dalle pressioni che la Epic esercitò sul gruppo durante la scrittura dei brani. La casa discografica esigeva evidentemente dalla band un risultato di vendite paragonabile a quello di “The final countdown” e per questo costrinse Tempest e compagni a riscrivere, limare, correggere o sostituire molti dei brani da essi composti per l’imminente nuova pubblicazione. Se generalmente molti artisti avrebbero sofferto questo tipo di politica come una limitazione alla loro libertà compositiva, gli Europe non batterono ciglio e si impegnarono, forti anche del loro amore per il lato pop delle loro composizioni (cosa che peraltro non mi sento di condannare) a scrivere un materiale il più d’impatto possibile. Quello che forse non riuscì, in tanto lavoro di limatura e correzione, fu di mantenere una certa carica e forza spontanea nel complesso dell’album, il quale risulta, in alcuni brani, un po’ costruito e forzato (pur rimanendo sempre molto godibile). Generalmente non amo le critiche rivolte alla “commercializzazione” dei gruppi, specie se già nati con una forte impronta melodica, ma questa volta devo ammettere che l’eccessiva ricerca di hit singles ha prodotto alcuni piccoli difetti anche in un gruppo estremamente dotato e talentuoso come gli Europe.
Tornando al disco ed alle sue composizioni, quel che si nota sin dalle prime note della traccia d’apertura “All or nothing” è un suono elettrico, carico e luccicante, simile a quello dei Bon Jovi del periodo “New Jersey” – “Keep the faith”, non c’è quasi traccia del suono limpido e sorretto dalle tastiere tipico dei due album precedenti, qui la sezione ritmica lavora in evidenza, le chitarre sono più cariche (ma sempre melodiche) e l’atmosfera generale è da super produzione AOR americana. In effetti “Prisoners in paradise” è forse il più AOR di tutti i dischi degli Europe e bisogna dire che questo è il risultato di una precisa scelta di produzione e di composizione, ma, intendiamoci, non è necessariamente un male. Tra i dodici brani presenti, la qualità generale è piuttosto buona, ma come di consueto alcune composizioni svettano sulle altre e si candidano a divenire i singoli dell’album: “I’ll cry for you”, “Prisoners in paradise” e “Girl from Lebanon”. “I’ll cry for you” è una ballata potente e piena che, pur risultando un tantino zuccherosa, si fa amare per la bella melodia e per il suo carattere così “americano” nella struttura e nei suoni, tanto che potrebbe essere benissimo il frutto di una collaborazione con Desmond Child (co-autore di moltissimi hits americani, insieme a Kiss, Bon Jovi ed altri); “Prisoners in paradise”, qui presente in una versione più lunga rispetto al singolo (sostanzialmente c’è una intro in più e null’altro). La canzone si presenta come una semi-ballata, ma che pezzo!!! Personalmente trovo questo brano molto coinvolgente a livello emotivo e struggente nel testo. Tutti gli ingredienti del successo degli Europe qui sono presenti nella migliore delle combinazioni: energia, melodia, raffinatezza, interpretazione, emotività….decisamente la colonna portante del disco, basta ascoltare il bellissimo ritornello. “Girl from Lebanon” è invece una hit minore (ebbe meno successo delle altre due) e non riesce a sfondare ovunque, anche perché non ricalca in pieno gli schemi del “grimaldello radiofonico”. Il brano è caratterizzato da un tema melodico inusuale ma molto evocativo che si alterna con una parte ritmica più “fisica” e rocciosa (sempre nei limiti del suono Europe), garantendo al brano una struttura a mio avviso estremamente gradevole. Mi piace soprattutto l’uso delle tastiere nel ritornello, tra l’altro orecchiabile ed affascinante, più di altri presenti nel disco.
Le altre canzoni forniscono materiale per placare la sete di energia e melodia di tutti gli amanti del rock di questo tipo, in special modo “All or nothing” e “Halfway to heaven”, scritte per essere ascoltate a tutto volume mentre si suda in palestra o mentre si guida su una bella strada libera in una splendida giornata di sole. “Little bit of loving” è invece più sporca, stradaiola, graffiante e pugnace, con la bella chitarra di Marcello in evidenza, così come l’efficace “Bad blood”, sorretta da un riff elettrico, preciso ed incredibilmente “californiano”; i rimanenti brani mantengono una forma da potenziale singolo, ma non riescono in tutto e per tutto a decollare e ad assurgere agli onori della cronaca, ed è questo, credo, il difetto di questo album….la ricerca esasperata di successi radiofonici. “Homeland” è una ballata un po’ insipida e gli altri pezzi si distinguono per alcuni assoli ben fatti o per alcuni sprazzi melodici particolarmente felici, ma senza eccessiva enfasi. Sia chiaro comunque che tutto il disco si lascia ascoltare con piacere dall’inizio alla fine e non esistono veri e propri momenti di stanca, per cui il limite da me accennato risulta valido solo a livello comparativo (rispetto cioè alle canzoni più riuscite). In conclusione, “Prisoners in paradise” è un album ben fatto ed offre momenti di alta classe made in Europe, facendo la gioia non solo dei loro fans, ma anche degli amanti dell’hard rock americano da classifica. Nonostante le premesse, però, il disco ebbe un successo limitato, perché la grande recessione economica d’inizio anni ’90, le nuove tendenze musicali (leggi grunge e metal estremo) e nuovi idoli adolescenziali soppiantarono gli Europe nel cuore del pubblico e modificarono ampiamente i canoni del gusto musicale nel mondo rock, travolgendo chi, negli anni precedenti, aveva avuto più successo: Ratt, Motley Crue, Twisted Sister ed in genere molti gruppi famosi negli anni ’80. Spiazzati dal cambiamento del mercato e del gusto musicale medio (evidente soprattutto negli USA), sia gli Europe che la Epic andarono in crisi e non seppero reagire alla sfida. Il gruppo entrò in una fase conflittuale con la propria etichetta e, viste le allora insormontabili difficoltà nel proseguire un discorso musicale come quello del gruppo svedese, Tempest e compagni (non certo dissuasi dai dirigenti della Epic), dopo la pubblicazione di un bel greatest hits, decisero di porre fine all’avventura e di dedicarsi a progetti solisti. Era il 1993.

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