Recensione: Product Of Society
I Defiance di Oakland, California, sono stati una di quelle band “collaterali” del movimento thrash metal (segnatamente americano) a cavallo tra anni ’80 e ’90, quando il thrash ha avuto il suo momento di maggior splendore qualitativo e appeal di vendite, in particolar modo quello ad alto tasso tecnico. In tale contesto i Defiance si sono collocati come una band mediana, tre album in un fazzoletto di pochissimi anni (’89 – ’92), nessuno così importante da entrare tra i capisaldi del genere o tra le prime scelte da portarsi su di un’isola deserta in caso di naufragio, ma neppure nefandezze od obbrobri così insignificanti da meritare l’oblio. Anche per questo forse non ce l’hanno mai fatta veramente; lo zoccolo duro dei thrasher completisti li ha conosciuti e collezionati tra i propri vinili, i metalheads più all’acqua di rose e generalisti li hanno trascurati. Prendiamo l’esordio, nel 1989 – anno di pubblicazione – la concorrenza era rappresentata da “Alice In Hell” degli Annihilator, “The Years Of Decay” degli Overkill, “Extreme Aggression” dei Kreator, “Beneath The Remains” dei Sepultura, “Agent Orange” dei Sodom, “Fabulous Disaster” degli Exodus, “Nothingface” dei Voivod, “Control And Resistance” dei Watchtower, “Practice What You Preach” dei Testament, e poi ancora Nuclear Assault, D.R.I., Coroner, Dark Angel, Evildead, Toxik, Sabbat e chi più ne ha più ne metta. Solo un anno prima i Metallica avevano pubblicato il compendio definitivo del techno thrash, difficile riuscire nel proposito di sfornare un album che potesse dire la sua ed imporsi nel genere a fronte di simili corazzate.
I Defiance però non si fanno scoraggiare e, come pressoché tutte le band all’esordio, si gettano con entusiasmo à la guerre. In consolle a produrre il loro album siede un certo Jeff Waters, che si rivelerà croce e delizia per i giovani Defiance. In molte interviste successive, all’altezza dei due dischi con Esquivel alla voce, la band affermerà di essersi sentita fortemente penalizzata dalle scelte produttive di Waters, imposte con troppa “autorità” e talvolta ai limiti del “non professionale”. In sostanza la band muoveva critiche al guitar hero canadese di aver troppo condizionato il sound dell’album, inficiando la resa delle chitarre (possibile… proprio Waters?!), mettendo il becco oltre il dovuto – complice anche l’inesperienza dei ragazzi – ed avendo teso a far somigliare fin troppo “Product Of Society” ad un album degli Annihilator. In effetti se ascoltate il sound del disco è innegabile che una certa parentela, ma questo a ben vedere (e con gli Annihilator all’epoca poco più che esordienti pure loro) non sarebbe di per sé chissà quale handicap. In tutta sincerità gli strumenti all’ascolto appaiono chiari, netti e puliti, le transizioni ritmiche sono scandite, intellegibili e perfettamente rese, per merito naturalmente della band ma anche di chi ne ha curato il sound. Qualche eventuale liaison a livello di stile tra Defiance e Annihilator la si può indubbiamente cogliere (Waters si occupa pure dell’assolo di “Deadly Intentions“) ma senza che i californiani vengano ridotti e mortificati a mera copia derivativa degli Annihilator. La ragione sociale delle due band rimane abbastanza distinta.
Dove i Defiance hanno sempre un po’ toppato è sulla scelta del vocalist. Esquivel (che poi li accompagnerà per tre album, compreso il recente “The Prophecy“) non l’ho mai apprezzato; poco equilibrato nelle sue interpretazioni, ha fatto scontare alla band strali di eccessiva somiglianza con i Testament, accuse dovute in buona parte proprio alle timbriche “chuckbillesche” di Esquivel (senza contare che Oakland ha dato i natali a questi e quelli). Tuttavia va detto che anche laddove Esquivel non è presente, ovvero “Product Of Society“, i Defiance non hanno fatto meglio, anzi peggio. Ken Elkington è il macigno al piede che affossa “Product Of Society“. Ho sempre pensato che questo esordio con un altro cantante, un buon cantante, avrebbe fatto faville, perché la qualità del songwriting non manca, con tutte le acerbità del caso da portare a maturazione, ma il potenziale c’è. Alcuni pezzi sono davvero notevolissimi, a cominciare dalla opener “The Fault“, passando per le ottime “Lock Jaw“, “Insomnia“, “Deadly Intentions” e la pregevole strumentale “Tribulation“. Certamente un più che discreto esordio, ed altrettanto certamente un album che faceva intravedere grandi margini di miglioramento ed una dignitosissima carriera ad attendere i Defiance. “Product Of Society” mantiene ancora saldi i legami con l’heavy metal (il successivo “Void Terra Firma” traghetterà nel thrash tout court il gruppo), ogni sforzo tuttavia viene azzoppato dalla monocorde prestazione di Elkington, che procede sempre uguale, di canzone in canzone, tirando fino all’impossibile la sua ugola secca e aspra, finendo col togliere profondità e versatilità al laborioso elaborato dei Defiance, già sufficientemente tecnici pur senza risultare mai troppo astrusi. Se ne devono essere resi conto anche i ragazzi, che infatti all’indomani della pubblicazione allontanano il vocalist, cambiano produttore e si gettano a capofitto nella realizzazione di un nuovo capitolo discografico. Il resto è storia (minore), sebbene decine di altre band abbiano poi oscurato le fatiche dei Defiance.
A mio modo di vedere, per chi mastica thrash a volontà i loro platter non dovrebbero mancare in una collezione, ed infatti mi sono comportato coerentemente acquistando nel tempo (in concomitanza con le rispettive uscite) i loro vinili. Il ritorno sulle scene nel 2009 non è stato trionfale; al netto della testimonianza, in tutta onestà se ne poteva tranquillamente fare a meno e comunque l’operazione “comeback” è morta lì, perché a distanza di 10 anni nient’altro è stato ulteriormente pubblicato. Motivo in più per recuperare questo “Product Of Society“, con il suo artwork blu fiammeggiante, raffigurante in copertina una versione piuttosto citazionistica del personaggio di Lotney “Sloth” Fratelli, il mostro deforme dei Goonies, entrato nell’immaginario dei teenager degli anni ’80, americani e non. Non una copertina bellissima in senso assoluto ma al contempo un concept al quale tutto sommato era abbastanza facile affezionarsi, anche per la consonanza con il materiale sonoro contenuto tra i solchi.
Marco Tripodi