Recensione: Profane Geometry

Di Daniele D'Adamo - 4 Agosto 2024 - 0:00
Profane Geometry
72

Finalmente, dopo cinque anni di attesa, anche per gli statunitensi Black Hole Deity giunge il momento della pubblicazione del debut-album, intitolato “Profane Geometry“.

Giova conoscere sin da subito i temi trattati, poiché s’intersecano, aderendo allo stile artistico, formando un tutt’uno dalla consistenza granitica. Dal punto di vista concettuale, quindi, a detta della band sono state trattate storie che sono andate oltre la normale comprensione umana, mediante un approccio testuale che ha toccato il fantascientifico/horror soprannaturale: guerra con gli alieni, esperienze metafisiche nonché l’immancabile annientamento nucleare.

Detto questo, la musica.

Death metal. Dall’ossatura rigorosamente progettata partendo dall’ortodossia del genere appena citato. Un aspetto, questo, che si rileva ovunque, lungo il viaggio che, dall’intro ‘Ex Nihilo‘, ha come tappa finale ‘Demons Beneath‘. In “Profane Geometry” echeggiano allora prepotenti gli act che hanno dato vita a questa branchia del metal estremo. Echi che rimbalzano e rimbalzano sulle pareti rocciose di un sound duro, spietato, a tratti violentissimo, musicalmente parlando, dal mood ombroso e sulfureo.

Abbracciata a quest’approccio c’è la voglia di modernità, che dà luogo al più classico degli ossimori: nuovo contro vecchio. Che, però, i Black Hole Deity diluiscono con attenzione, badando a non commettere errori di forma e di sostanza. In parole povere, l’LP suona contemporaneamente, e si potrebbe dire bene, come se fosse concepito a cavallo degli anni novanta e ora, adesso. Con una naturalezza che si rivela essere, almeno a parere di chi scrive, il punto forte del full-length stesso.

Un obiettivo raggiunto, pure, grazie alla perizia tecnica dei quattro musicisti dell’Alabama, la quale si assesta su un livello qualitativo notevole. Con ciò, riuscendo a definire nei dettagli uno stile piuttosto personale. Anzi, di più: adulto e, professionalmente parlando, perfettamente adeguato al mercato discografico, benché la partenza del progetto sia del tutto underground. Cartina al tornasole per quanto appena affermato è l’interludio strumentale ‘Hydrazine Vapours‘, in cui i due chitarristi, accompagnati dal violoncello, mostrano tutta la loro bravura ma soprattutto classe e classe per la melodia.

Poi, è devastazione. L’attacco frontale prodotto dalla somma della strumentazione è poderoso, massiccio, velocissimo grazie a una sezione di spinta che fa il suo con inusitata potenza. Grazie specialmente a Mike Heller, ben noto quale membro di un’infinità di band fra le quali spiccano i Fear Factory. La brutalità dei blast-beats, lanciati al massimo delle possibilità umane, cozza tuttavia con i bellissimi assoli di Alec Cordero e Cam Pinkerton. I quali riescono ad abbellire, con ceselli e ricami di pregevole fattura, ogni brano del disco. E qui si torna all’inizio, e cioè all’antitesi fra leggiadria musicale e furia annichilatrice.

Chris White vola sulle linee vocali con un growling non troppo accentuato, anzi più vicino al modus operandi del thrash. Il che, assieme a una selva di riff dall’aspetto tirato a lucido, offre agli ascoltatori l’agognata sensazione di avere a che fare con qualcosa al passo con i tempi.

Perfino le canzoni, che scivolano via con disinvoltura e scioltezza, presentano un aspetto bifronte. Aggressività totale, più aderente al death nudo e crudo, e struttura le cui membrature rispecchiano il modo di comporre attuale.

Insomma, “Profane Geometry“, pur non essendo un’opera clamorosa, può regalare emozioni forti e roventi assieme a sensazioni morbide e vellutate. La qualità delle composizione è più che sufficiente anche se i Black Hole Deity qualcosa di più, in termini di riconoscibilità delle tracce, potevano fare. Ma, del resto, in fondo, si tratta del primo passo, con tutti i problemi che si tira dietro e che, quasi tutti, sono stati risolti.

Bene così.

Daniele “dani66” D’Adamo

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