Recensione: Profane Nexus
A distanza di tre anni da “Dirges of Elysium” torna la creatura di John McEntee, chiamata Incantation, per spargere ancora una volta il proprio verbo mediante il suo undicesimo full-length, “Profane Nexus”.
Meglio affermarlo subito, così non ci sono dubbi di sorta: nuovo album che nulla aggiunge e nulla toglie alla straordinaria carriera del combo statunitense, probabilmente assestato su uno stile ormai immutabile, marmoreo, refrattario a esperimenti e innovazioni. Allo stesso tempo una forza e una debolezza, ciò, poiché rende sì immutabile nel tempo un sound unicamente assegnabile al solo combo di Johnstown ma che toglie, nel contempo, quella frizzante voglia di novità e di sorpresa che accompagna l’ascolto di una nuova opera di una band importante.
E sì che importanti lo sono, gli Incantation, capaci di suonare assieme, si ribadisce assieme e non mischiati, non miscelati, due generi assolutamente distinti come il death metal – in primis – e il doom, riuscendo a eccellere in entrambi i casi, riuscendo a tenerli assieme senza strappi, senza soluzioni di continuità, senza discrasie. Un modus operandi un po’ croce e delizia della formazione della Pennsylvania cui, magari, molti hanno trovato e non trovano il bandolo della matassa per un funeral doom metal, – perché di questo si tratta, del problema funeral doom – , il quale, per una questione né tecnica né artistica quanto eminentemente di gusti e preferenze personali, non dovrebbe esserci, nei lavori della band a stelle e strisce.
Invece, brani come l’immobile ‘Incorporeal Despair’ sono lì, a scavare lentissimamente fra i meandri della psiche umana alla ricerca dei più reconditi anfratti cui potrebbe celarsi follia, mania, degenerazione. Stati mentali ben rappresentati, una volta passati al death, dalle improvvise, inaspettate, violentissime sfuriate al calor bianco dei blast-beats; come avviene, per esempio, con la furibonda, forsennata ‘Lus Sepulcri’. Due facce della stessa medaglia, opposte ma cementate assieme, tridimensionalmente avvolgenti la testa di Giano Bifronte.
Del resto, così sono gli Incantation: prendere o lasciare.
E McEntee ne è il sacerdote indiscusso, capace, con il suo cangiante growling roco e rabbioso, di essere interprete ideale sia del death, sia del doom. Alternando i due generi non solo fra una song e l’altra ma anche all’interno dello stesso episodio, come dimostra l’opener-track ‘Muse’. Pure il riffing segue le impennate, in basso e in alto, del ritmo, proponendo accordi stoppati dalla tecnica del palm-muting, univocamente marci. Sempre ammantati di putredine, di stantio, di innominabile, insomma.
Tornando al discorso di partenza, la critica alla circostanza che “Profane Nexus” non sia nulla di speciale muove i suoi passi, quindi, non dallo stile bensì dalla scrittura dei pezzi, troppo scolastici, peggio scontati. La classe non è acqua e si sente, in ogni passaggio: gli Incantation sono nati assieme al death, quasi trent’anni fa, e non si può non tenerne conto. Ogni riff, ogni battuta, ogni parola sono scanditi con quel flavour che solo chi c’è stato riesce a emanare.
Onore e merito agli Incantation, quindi, per l’inossidabile volontà di esserci anche in pieno 2017. Da solo, tuttavia, il blasone non basta: occorre osare, provare, rinnovare, anche se di poco, anche se soltanto i dettagli. E, questo, loro non l’hanno fatto.
Daniele “dani66” D’Adamo