Recensione: Project X
C’era da aspettarselo. In effetti avevo un brutto presentimento. Un album sugli alieni. Nel 2015. Operazione difficile, molto difficile. Ci vuole originalità, simpatia ed un pizzico di follia (come nel caso degli ultimi Gloryhammer), sempre col rischio di risultare un po’ buffi e un po’ ridicoli. È richiesta tanta originalità per non (s)cadere nel prevedibile teatrino popolato da grigi misteriosi, rettiliani colonizzatori ed intricati complottismi, fino agli anacronismi del buon vecchio ET “telefono casa” – del resto il film di Spielberg è datato 1982. Insomma, questi di “Project X” non sono più i tempi di “X Files”. Con un titolo così, poi, la difficoltà aumenta. Un concept che vuol dire tutto, ma prevalentemente sta lì a non dire nulla. “Project X”. Un progetto denotato da un’incognita, la “X”, il non palesarsi di un’identità, un’etichetta indeterminata da apporre su un’evidente mancanza di idee. I più accorti tra voi obietteranno che “X” sta anche a significare “dieci”, ossia il decimo album della band spagnola, in maniera analoga a quanto fatto dagli Iron Maiden in “The X Factor”, giusto per citare il caso più celebre. Ok, ma il sospetto “mancanza di idee” permane. Eppure stiamo parlando dei Dark Moor, tra le più interessanti e spesso sottovalutate realtà power metal di stampo latino (da contrapporre a teutonici e scandinavi): una band rimasta sempre ad altissimi livelli, disco dopo disco, arrivata in tempi recenti ad una perfetta sintesi tra metal melodico e power, che nell’ultimo “Ars Musica” (2013) si fondevano in un ispirato concept a tema spagnolo, oltre l’epica medioevaleggiante del passato che legava il nome di questa band ai grandi maestri del genere di appartenenza. Un gruppo originale, insomma, mai uguale a sé stesso, che anche in questo caso prova a sfruttare le correnti per azzardare l’ennesima virata.
Can anybody find me somebody to love?
Novembre 3023. Non è l’opprimente 6048 dei Vision Divine, ma quello che conta in un proemio è dare un’impronta cronologica, spaziale ed emozionale. Il futuro. L’intro orchestrale leggermente sporcata di elettronica è breve e ci accompagna trionfalmente al rapimento alieno di “Abduction”. Pezzo abbastanza mediocre, di nuovo con un sottofondo elettronico e qualche sonorità di tastiera giusto per dare l’effetto-fantascienza desiderato; i cori col loro “uuuh” sembrano un po’ fuori contesto. Anche il solo ricerca gli alieni con un buon uso del vibrato.
Attacco di pianoforte e tanta malinconia in apertura per la bella “Beyond the Stars”, che attinge a piene mani dai Queen coi suoi cambi di tempo e coi cori ai limiti della musica gospel. I Dark Moor cambiano pelle ad ogni disco, e questa spruzzata di hard rock è molto piacevole: una naturale evoluzione del sound dell’ultimo album. Il problema è quando la successiva “Conspiracy Revealed” ricomincia a proporre “uuh” e cori gospel, rimarcati ancora di più nella successiva “I Want to Believe”. #mobbasta. Stesse atmosfere, stessi arpeggi malinconici, in un mid tempo che starebbe bene assieme al panettone Melegatti sotto l’albero di Natale.
Finalmente un pezzo più heavy e tirato: “Bonne Voyage”, ma anche qui gli stessi cori si mescolano in un ritornello stereotipato, il riff è debole e nonostante il titolo ascensionale il pezzo non riesce a decollare, a fronte di una certa insistita ripetitività. Carina la parentesi con battito di mani e cori, sempre stile gospel natalizio. Liriche a parte, ancora nessun alieno intravisto.
Ancora hard rock un po’ anonimo per “Existence”, seguono i due singoli: “Imperial Earth” parte come una marcia per poi accelerare con un riffing plettrato ed esplodere nel ritornello corale, forse un po’ meno epico del solito ma sempre d’effetto. Il video invece sembra un B-movie di trent’anni fa. Effetto voluto, ok, ma un brutto voluto sempre brutto è.
Secondo singolo “Gabriel” abbastanza avvolgente, riff migliore del pezzo precedente, ritornello finalmente riuscito, per un pezzo fortemente melodico che valorizza la linea di basso e l’effettistica sci-fi, seppur riutilizzando i soliti cori con tanto di “uuh” che sentiamo qui per la milionesima volta nello stesso disco. Spoileriamo il finale? Il ritornello “Light is OVer mE” nel testo del brano fa comparire la parola LOVE in maiuscolo.
In conclusione, “There’s Something in the Skyes”, una suite che rimarca il grande talento al microfono di Alfred Romero e ci ricorda cosa può fare questa band al pentagramma, in un pezzo che è sintesi di tutto quanto di buono visto fin qui, ma che da solo basterebbe a rendere inutile il resto del disco; in un brano che più che di alieni parla d’amore. Come lo si capisce, spoiler precedente a parte? Obeh, in oltre otto minuti la parola “love” compare nelle liriche ben 41 volte. Gli alieni non esistono. C’è solo l’amore, nello spazio siderale. La suite è anche interessante dal punto di vista melodico, ottima la parte strumentale del buon vecchio Enrik Garcia per rimarcare il suo stile neoclassico, riuscendo a confezionare un brano tra hard rock e metal progressivo veramente raffinato.
Non è che Malcolm X sulla schedina metteva: “1,2 io…”
Mi si perdoni la facile battuta del Pierluigi Bersani di Maurizio Crozza sulla X – ma in fondo, non è che ai Dark Moor basta scimmiottare qualche riff stile Brian May, aggiungere i simpatici cori gospel, scrivere (come al solito) buoni arrangiamenti e rallentare il tempo per diventare i Queen. Anche volendo considerare il tentativo di “Project X” come un piacevole omaggio per il 40° anniversario di “A Night at the Opera” (1975), il tutto perde di senso se inserito nello scadente contesto sci-LOVE-fi nel quale è tristemente inserito.
Manca poi tutto il pathos dei Dark Moor del passato: l’epicità avvincente delle composizioni, la bella voce (anche solo in backing) della soprano Berenice Musa, le martellanti linee di basso di Mario Garcia (sostituito da un anonimo Dani Fernandez), un pezzo speed neoclassico bello tirato, qualcosa di power, fosse solo per conferire varietà al lavoro… niente di tutto ciò. “Project X” resta “solo” un disco godibile, con qualche pezzo più valido degli altri, in un album destinato forse ad una fetta più ampia di pubblico, correndo al contempo il rischio di scontentare più fan di vecchia data di quanti ne riesca a racimolare con la nuova veste hard rock.
Suggerisco agli spagnoli un momento di riflessione, nella speranza che questo decimo disco resti solo un progetto, denotato da un’incognita che è anche metafora della una crocetta da apporre su gran parte del lavoro, in segno di errore. X.
Luca “Montsteen” Montini