Recensione: Proof Of Existence
Certamente un’arma fa comodo, ci si sente più sicuri e minacciosi: con un’arma affronti l’esterno senza paura, hai un alleato che ti rende temibile. Ma può essere così unidirezionale il risultato dell’equazione uomo + arma? Direi di no: come ogni tema dello scibile umano ogni eccessivo appiattimento dell’analisi genera errori, e questo non fa eccezione. Il tipo di arma, come il modo e la situazione in cui è usata può creare più disagi a chi la usa piuttosto che al destinatario di essa. Il lettore potrà domandarsi cos’abbia quanto detto in comune con l’analisi di oggi, ed è presto detto: i Void Of Hope presentano il loro lavoro d’esordio “Proof of existence” con un’arma di “marketing” non indifferente, ovvero la presenza nella formazione della band di membri degli ormai celebri Moonlight Sorcery. Da qui la riflessione iniziale. Questa penetrazione penetrazione del mercato facilitata dalla curiosità indotta da tale informazione avrà delle ripercussioni? Andiamo a scoprirlo.
Il disco si apre con “Gift of hope”. Dopo il gradevole inizio al piano, la prima cosa che colpisce è la voce del cantante, raschiata e acuta, al limite del fastidioso. La sensazione è paragonabile alle linee vocali presenti in “Goatlord” dei Darkthrone, davvero poco calzanti con il contesto in cui sono calate – seppur non dannose a quei livelli. La parte strumentale è buona, ma oltre al fattore vocale – che va ad intaccarne inevitabilmente il valore – risulta “solo” buono e nulla più, non eccelle in nulla. Stesso dicasi per la successiva “Proof of existence”, strumentalmente piacevole con un ottimo riff di chitarra sibilante, ma generalmente pezzo con poco mordente. La voce crea disagio in particolare per la successiva “The hollow hymn”, brano più lungo del lotto (oltre gli 11 minuti), davvero interessante e di qualità elevata, ma difficile da apprezzare nella sua interezza. Il punto non è che il cantante sia stonato, ma che si sia deciso in fase compositiva di impostare una tonalità di voce troppo staccata dal resto; sembra sia stata registrata a parte nel silenzio e poi attaccata artificialmente ad un pacchetto sonoro completo ma separato. Segue “T.E.T.L.”, sicuramente il pezzo più black metal e divertente dell’album e chiude il disco “Decaying years”; una lunga sezione atmosferica abbastanza scialba.
Com’è stata usata dunque quest’arma? Dipende. Le premesse portavano ad immaginare tutt’altra proposta musicale in senso generale, ma non per questo ci si predispone negativamente, anzi. Si può avanzare nell’ascolto con la curiosità di verificare la versatilità di certi artisti. Il problema è che qui l’aspettativa di chi non ha questo genere d’interpretazione della capacità di adattamento creativo potrebbe essere letale e far interrompere l’ascolto sul momento, ma – e questo è ancora peggio – anche i più aperti alla scoperta potrebbero rimanere delusi per la sensazione di incompiutezza che il prodotto trasmette: se il contributo compositivo può variare in termini espressivi, per lo meno in termini qualitativi sarebbe stato lecito aspettarsi di più. Questo però a prescindere dai nomi: questi rendono solo la delusione maggiore in chi sperava; il prodotto non colpisce mai, con o senza armi.