Recensione: Prophecy
La Svezia è un universo musicale a parte. Ne siamo tutti concordi.
Quando però accostiamo il paese scandinavo ai nostri pensieri di ascoltatori, siamo soliti individuarlo come una fucina inesauribile di realtà metal e melodic rock in varie forme e sfaccettature.
Non considerando invece che, da quelle parti, la musica è un discorso alquanto più vasto e complesso.
Da questa vastità, ad esempio, derivano gli ineffabili Reach, gruppo sorretto da un trio di artisti decisamente preparati ai quali vanno un po’ strette molte categorie che si vorrebbero prestabilite.
Arrivati con “Prophecy” al quarto disco in una carriera che li ha visti esordire nel 2012, i Reach sono, in effetti, una band rock non proprio nel modo canonico di intendere il termine. Nella loro proposta si trovano molti spunti differenti che si classificano con difficoltà all’interno di un filone univoco.
Hard rock, certo. Ma pure un pop rock raffinato di estrazione moderna e molto radiofonica. Ricercate sfumature brit pop, elementi di sonorità moderne ed ambiziosamente audaci nel volersi mostrare di facile ascolto sino ad occhieggiare al grande pubblico.
Un misto di Queen, Muse ed Imagine Dragons, con qualcosa dei Levara, richiami ai Toto, sino a scomodare Lenny Kravitz. Un po’ di AOR, una spruzzata pop e di alternative, con parecchia creatività ed una voce, quella del singer e chitarrista Ludvig Turner, di livello davvero molto alto per classe espressiva.
Un bel menù, apparecchiato per un’audience necessariamente ricettiva ed un po’ aperta di vedute, che riesce a soddisfare in virtù di brani spesso divertenti ed accessibili, per quanto, mai dozzinali.
E insomma, per rendere concrete canzoni come “Little Dreams”, “A Beautiful Life“, “Psycho Violence” e “Grand Finale” bisogna saperci fare, avere coscienza dei propri mezzi e possedere un estro vincente per bilanciare cori, melodie di facile ascolto ed una evidente attitudine rock a fare da collante.
C’è dunque parecchio da ascoltare in “Prophecy”. Senza fretta e con un po’ di voglia di scoprire qualcosa di un pizzico diverso dal solito, c’è la possibilità sincera di trovare una cosa nuova, forse non proprio tradizionale per le orecchie del tipico ascoltatore di hard rock ma comunque gratificante.
Nel giro di tre – quattro passaggi, il disco cattura e non lascia più.
Il sintomo chiaro di un prodotto molto ben costruito e confezionato nei dettagli da tre artisti assoltamente talentuosi.