Recensione: Prophecy Is the Mold in Which History Is Poured
Gli Aurora Borealis fanno parte di quell’insieme di gruppi definiti come black/death. Un insieme che non dovrebbe esistere, poiché – a parere di chi scrive – o si sta da una parte, o dall’altra.
In effetti qualche elemento di derivazione death metal c’è, come per esempio la sovrapposizione di linee vocali disegnate con il growling. A parte questo, tuttavia, la sensazione a pelle, ma non solo, afferma con decisione: «black metal!».
E che black metal sia!
Non che quest’elucubrazione sia l’aspetto più importante della questione, dato atto che ciò che importa veramente è lo stile personale della band, ma almeno consente di focalizzare correttamente e lucidamente le fondamenta dello stile medesimo.
Stile aggressivo, improntato sulla velocità stratosferica imposta dai precisi quanto terremotanti blast-beats di Mark Green. “Prophecy Is the Mold in Which History Is Poured”, l’ottavo full-length in carriera del combo statunitense, è difatti un inno alla massima violenza sonora. L’emblema della trance da hyper-speed, il marchio a fuoco della ferocia musicale.
Il tutto realizzato con grande perizia da parte dei tre tremendi componenti, posizionati su un elevato tasso di preparazione tecnica. La quale, unita a un’irreprensibile professionalità, consente di poter delineare con estrema chiarezza il mostruoso coagulo di note che, come infiniti mattoncini, formano la struttura sonora dell’album.
Ron Vento, il mastermind, crea un immenso muro di suono grazie a un riffing allo stesso tempo complesso ma lineare, formato da accordi quadrati che si chiudono su se stessi per dar vita alla massima compattezza possibile (‘God Hunter’). Sono presenti anche alcuni deliziosi ricami melodici (‘Ephemeral Rise’), indicativi di un’ottima qualità anche in sede solista. Un chitarrista davvero completo, in grado di occuparsi da solo delle partiture della sei corde con grande sicurezza nei propri mezzi. Eseguite sì da risultare la colonna vertebrale di uno stile forse non troppo originale ma almeno adulto, maturo, sufficientemente indicativo di un’anima unica e non iterabile.
Il buon Ron, oltre a occuparsi della programmazione di inserti ambient che qua e là emergono dal disco, è anche il cantante che elabora le linee vocali di cui si è scritto più su. Linee un po’ diverse dal solito, giacché esse si aggrovigliano perpetuamente fra un folle e scellerato screaming e un roco growling, per un effetto complessivo che trova, stavolta, pochi altri riscontri nell’enorme famiglia del black metal.
Eddie Rossi, il bassista, anche se apparentemente non appare come protagonista nel sound dell’ensemble del Maryland, cuce con molta abilità e dinamismo quanto creato dai suoi compagni; fornendo la necessaria coesione e compattezza al sound medesimo che, in tal modo, assume la forza e potenza di una mazza ferrata.
Piuttosto rilevante il songwriting, capace di creare canzoni ben distinte le une dalle altre seppur coerenti con i dettami che partecipano a disegnare il marchio di fabbrica del trio al fulmicotone. Questo carattere marcato di ciascuna traccia emerge sin dai primi ascolti, quando si può udire l’esplosione del mostruoso riff portante di ‘The House of Nimrod’, per esempio, o il tormentato ritmo di ‘Awakening’, brano multiforme in tutte le sue caratteristiche, compreso il raggelante incipit contraddistinto da cori di voci non umane.
“Prophecy Is the Mold in Which History Is Poured” è, in definitiva, un LP di classe medio-alta, che espleta una forma moderna ma allo stesso tempo ortodossa di black metal. Nessuna sperimentazione ma anche tanta consistenza e massimo rigore nel rispetto della foggia artistica, sì da fornire un esempio per chi volesse, in pieno 2022, assaggiare il genere suddetto nella sua ideale espressione.
Il che porta a definire gli Aurora Borealis una delle formazioni… più in forma del momento.
Daniele “dani66” D’Adamo