Recensione: Psycho City
“Psycho City” non è di certo l’album più titolato della band californiana e le motivazioni possono essere molteplici, a partire dall’anno di uscita, quel 1992 che ha visto dissolversi nel nulla buona parte dei gruppi che avevano dominato per oltre un decennio le charts americane, fino alla direzione stilistica e contenutistica definitivamente imboccata, da allora, da Russell, Kendall e compagnia.
La critica e l’immaginario collettivo hanno sempre cercato di inserire i Great White nel nutrito novero delle AOR/Hair metal bands figlie degli anni ’80, un abito che andava stretto ai losangelini già dall’epoca di “Once Bitten…”. Certo, a quei tempi era difficile fare a meno di tastiere, arrangiamenti e melodie che strizzavano l’occhio alla moda imperante dell’AOR, eppure il bisogno sconfinato di blues pareva crescere sempre più ad ogni uscita ed era sufficiente porre a confronto due album come l’acerbo (ma ragguardevole) “Shot In The Dark” e il più posato “Hooked” per capire qual era il cammino intrapreso dai losangelini.
In questo senso “Psycho City” sposta ulteriormente in avanti la linea di confine. La musica proposta è un hard blues (talvolta nemmeno troppo hard, a dirla tutta), nel quale le passate tentazioni AOR vengono del tutto messe da parte, lasciando campo libero a intro e outro acustiche, rifiniture di pianoforte e assolo torrenziali, il tutto spalmato su pezzi articolati ed ambiziosi permeati da un velo di tristezza e malinconia.
In sostanza gli Squali Bianchi, dopo una serie di lavori comunque di grande rilievo, composero l’album della definitiva maturità artistica liberandosi dall’influenza delle mode e del mercato e limitandosi a dar corpo e anima alla musica che da sempre portavano dentro di sé stessi: un grande, grandissimo rock, melodico eppure mai scontato o troppo ammiccante, intriso di passione e di sentimento oltre che di umori tipicamente yankee, mutuati dal blues, dal country e dal rock ‘n’ roll.
“Psycho City” apre le danze all’insegna di un riff di chitarra che riesce a essere l’anello di congiunzione tra hard rock e blues e di una melodia tipicamente GW, il tutto arrangiato con cura genuina e minimale. Con “Step On You”, ritorna in primo piano la vena più hard oriented e il risultato è, senza troppi giri di parole, sensazionale: guitar work brillante, Russell al suo meglio e suoni perfettamente bilanciati.
“Old Rose Motel” costituisce una sorta di antipasto di gran lusso, in cui la fusione tra i due generi citati è andata ormai ben oltre il point of no return, alla successiva “Maybe Someday”, in una parola il top, semplicemente la miglior canzone d’amore mai scritta dai Great White: tema melodico ammaliante, sorretto dal verseggiare da bluesman disperato di Jack Russell, e dalle chitarre di Kendall e Lardie più che mai morbide e sinuose, probabilmente l’high light assoluto in scaletta.
“Big Goodbye” è un tipico up tempo nello stile dei losangelini e fortemente debitore dei Led Zeppelin, come se n’erano già ascoltati su “Once Bitten..” e su “Hooked”, “Doctor Me” ha un flavour vagamente Rolling Stones mentre su “I Want You” Kendall si diverte come un matto a suon di wah wah di chitarra, riportando la mente direttamente allo spettacolare assolo di “Congo Square”.
Se “Never Trust A Pretty Face” è un hard/rockabilly meno brillante rispetto al resto della tracklist, “Love Is A Lie” gioca sapientemente la carta del bluesettone notturno e malinconico animato da pianoforte e sferzate di elettrica alla maniera del Gary Moore novantiano e il risultato è, di nuovo, di primissima qualità, per atmosfera e per esecuzione.
La chiusura è affidata alla superba “Get It On Home”: un rock ibrido di gran classe in cui intro e strofe cantate con voce sommessa e accompagnate da poche note di chitarra acustica vengono squarciate dall’entrata irruenta delle chitarre elettriche a suon di riff cadenzati ed esaltanti, l’ennesima prova dell’inarrivabile maestria della band statunitense.
Terminato l’ascolto di un lavoro di questo livello rimane sinceramente poco da aggiungere. La musica parla per sé meglio di mille parole; il vero delitto, a detta di chi scrive, visto anche lo sforzo profuso dai Great White per donargli un abito impermeabile alle mode, sarebbe relegarlo a prodotto di genere, fruibile dai soli appassionati. Nulla di più errato: quella contenuta in “Psycho City” è musica senza tempo, degna di quel riconoscimento in termini di fama e di critica giunto finora solo parzialmente.
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Tracklist:
01- Psycho City
02- Step On You
03- Old Rose Motel
04- Maybe Someday
05- Big Goodbye
06- Doctor Me
07- I Want You
08- Never Trust A Pretty Face
09- Love Is A Lie
10- Get On Home
Line Up:
Jack Russell – Voce
Mark Kendall – Chitarra
Michael Lardie – Chitarra / Tastiere
Audie Desbrow – Batteria