Recensione: Psycho Savant [Reissue]
“[…] Se si vuole allontanare per sempre l’uguaglianza fra gli uomini, se gli Alti, come li abbiamo definiti, intendono restare per sempre al loro posto, allora la condizione mentale dominante deve coincidere con una follia tenuta sotto controllo […]”. Così scriveva George Orwell nel suo capolavoro 1984. Egli è il più grande interprete della “letteratura distopica”, un filone in grado di veicolare importanti messaggi alla popolazione e capace di allargare l’orizzonte delle riflessioni. La possibilità di un futuro tenebroso, ma non molto distante dal presente, concede la possibilità di guardare criticamente e oggettivamente la realtà dove “[…] La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza […]” (sempre da 1984).
Emerge, dall’opera distopica di Orwell, uno scenario agghiacciante, da paesaggio post-atomico, in grado di far venire meno ogni forma di certezza sulla libertà della propria persona e sulla reale applicazione del concetto di Democrazia, vale a dire una scenografia dove la manipolazione e il controllo mentale non sembrano essere peregrini e si fanno prodromi di quello che si caratterizzerà proprio come un futuro terrificante. La manipolazione delle menti attuata da qualche potente in grado di generare mostri sociali rappresenta, Orwell a parte, un terreno molto fertile di analisi, basti pensare anche alle altre opere letterarie quali, per esempio, Le 48 Leggi Del Potere di R. Green, Brainwashing di K. Taylor oppure, anche se in una forma leggermente differente, quel grandissimo capolavoro intitolato La Dittatura Delle Abitudini di Charles Duhigg.
Nell’alveo del genere distopico appena accennato si inserisce un’altra manifestazione artistica non appartenente alla carta stampata, bensì al pentagramma, vale a dire l’album Phyco Savant degli americani Intruder pubblicato nel giugno del 1991 per la Metal Blade Records e riportato giustamente in vita in questo 2020 dalla Lusitanian Music.
Che gli Intruder fossero colti e fortemente attratti dal “mondo culturale” è cosa nota e già dimostrata, ma con il distopico Phyco Savant questo loro modo di essere si esalta, diventa profondo, investigativo e critico, fino a lambire la denuncia sociale; a tal proposito si pensi al brano Geri’s Lament (When) attraverso il quale denunciano gli abusi sugli anziani (Geri’s sta infatti per “Geriatrics”) ricoverati nelle strutture specifiche portando alla ribalta un problema all’epoca sconosciuto, ma che da lì a qualche anno sarebbe diventato purtroppo di forte attualità. A tal proposito suonano interessantissime queste parole contenute nel testo: “[…] I remember when we were young. / No thought at all of what we would become. / They sold us a dream-said we’d never die. / But that was over sixty years ago. / We’re so much older an now we know, / that what they told us was only a lie! / Now we realize-what a surpirse-everybody dies! […]”, oppure quelle da cui emerge un fondato titanismo (senza scomodare la poetica di Leopardi) che recitano così: “[…] Everyday I sit and pray, when will you come and take me home. / Where’s the love, from above, I feel so lost and all alone. / I want to be toung and free, not some fourth-class citizen. / It won’t be long and I’ll be gone. ‘Till then I’ll just keep wondering-Please tell me when”.
Da un’analisi attenta tutto in questo album si incastra come in un mosaico votato alla coerenza, già la bellissima copertina (ma questa non è una novità per gli Intruder) a cura di Rich Larson e Steve Fastner volendola interpretare preannuncia i contenuti del disco; in essa è raffigurata una partita a scacchi tra un uomo potente (“Alto” e qui tornano le suggestioni orwelliane) e un mostro (e ricompaiono anche qui, quasi a raffigurare il mostro sociale frutto della manipolazione) intenti a muovere, invece degli scacchi, dei resti umani. Tutto questo trova perfetta logicità con il primo brano Face Of Hate o con, tra le altre, N.G.R.I. (Not Guilty For Reason Of Insanity).
Psycho Savant è un disco che aderisce totalmente ai canoni del genere (basti ascoltare It’S A Good Life con chiari riferimenti agli Slayer), i brani durano molto e all’interno troviamo dei lunghi passaggi musicali che portano la durata di tutto il lavoro a circa 54 minuti; questo potrebbe rappresentare un limite in quanto ai meno avvezzi risulterebbe, forse, pesante e un po’ stucchevole. La formazione è sempre la stessa con Jimmy Hamilton alla voce, Arthur Vinnett e Greg Messick (scomparso nel corso del 2020) alle chitarre, Todd Nelson al basso e John Pieroni alla batteria. L’album rappresenta un perfezionamento rispetto le prove precedenti, c’è una tangibile evoluzione rispetto agli esordi con un notevole stacco di Pieroni dietro la batteria e con un Hamilton molto più teatrale rispetto al passato.
Inserendo il CD nel lettore il primo brano che si ascolta, come anticipato, è Face Of Hate che parte in sordina con un intro sottotono, ma che si riprende subito con del buon Thrash vecchia scuola. Notevoli sono i giochi di cassa di John Pieroni, un mediano di tutto rispetto. I cori si fanno carichi e Jimmy Hamilton conferma fin da subito il suo perenne stato di grazia (seppur il bridge centrale del brano non ne enfatizza le caratteristiche vocali).
Qui si è alla ricerca di fraseggi piuttosto ricercati durante il solo di chitarra (un must questo che perdurerà fino alla fine) a volte con dei risultati davvero fuori dal comune e a volte fin troppo banali. Gli intrecci alle sei corde comunque sono sempre un bel sentire, tutta la sezione strumentale dell’opener è una piccola gemma: continui cambi strutturali e armonici e non vi è difficile riscontrare che alcune scelte in termini di scelta di riff o groove ispireranno Set The World On Fire degli Annihilator (che uscirà due anni dopo).
Si comincia col piede giusto dunque, ma la successiva Geri’s Lament (When) non risulterà all’altezza di quella che l’ha preceduta. Una stanchezza di fondo forse o più semplicemente la scelta di alternare momenti euforici a momenti un po’ meno ispirati, che non si rivelerà poi così felice. Dopo i primi due minuti del tutto anonimi il brano prende vita (e qui si confermano nuovamente le “similitudini” ai lavori che usciranno di lì a poco di Jeff Waters e soci), ma siamo in territorio Thrash in tutto e per tutto, l’essenza di questo genere in fondo deve molto anche agli Intruder. Chiaro marchio di fabbrica sono anche i giochi di armonici col ponte Floyd Rose in apertura al solo di chitarra che rispecchiano sì il periodo, ma anche uno stato d’animo rabbioso e rivoluzionario che negli ultimi anni è andato man mano scomparendo. La magia in quell’apparente semplice gesto di sollevare la leva del vibrato fino al massimo punto di tensione della corda era in quel periodo sinonimo di estemporaneità e rappresentava la parte più “umana” del solo vero e proprio, la parte meno replicabile (se non con risultati comunque sempre diversi in ogni esibizione) e dunque più soggetta allo specifico stato d’animo del momento. Uno “strumento” nello strumento che oggi non trova più spazio nelle produzioni attuali, cancellato come una moda (e che come tutte le mode prima o poi ritornerà).
Proseguendo si ascolta l’introduzione acustica in Mi bemolle di The Enemy Within, un preludio vero e proprio in quanto dopo appena 50 secondi arriva una marcia violentissima (questo potremmo chiamarlo “secondo preludio”) che apre il brano nella sua essenza. Il chorus è molto easy e si stampa molto bene nella mente, peccato per il bridge centrale cadenzato in quanto trattasi di un intermezzo sottotono e decisamente fuori dalle corde di Hamilton. Un vero e proprio tallone d’Achille per gli Intruder: ostinarsi a costruire delle parti mid tempo con lead vocals quasi cantilenanti, senza fare i conti con l’organico della band o le proprie peculiarità tecniche. A tratti sembrerebbe una forzatura commerciale in un gruppo che di commerciale in realtà non ha mai avuto nulla.
It’s A Good Life è di facile presa per l’ascoltatore; chorus iniziale in pieno stile glam e assolo liberatorio quasi da colonna sonora di film stile American Pie. Artisticamente siamo ben al di sotto rispetto agli standard a cui questa band ci ha abituati, ma la carica emotiva è anch’essa una caratteristica importante da tener presente in fase di analisi e ascolto e qui ce n’è tanta. A metà brano si procede di mid tempo in pieno stile Bay Area e ancora una sezione piena di cambi di tempo e chitarre che duettano tra loro. A dir poco strani i contrasti delle stesse chitarre con “effetto fuoricampo”, regna la confusione più totale in questo frangente, seppur il risultato finale ha davvero il suo perché.
Stesso modo di introdurre di The Enemy Within lo si trova nella successiva Invisible. Non si parla ovviamente delle stesse evoluzioni, anche se la tonalità d’impianto è comunque la stessa, ma di un uso un po’ abusato dello strumento acustico come “fine a sé stesso” o fuori dal contesto “canzone”. Insomma un’esecuzione letteralmente piantata lì per creare quell’effetto sorpresa (per i più distratti forse) dato dalla violenza esecutiva dell’ingresso di tutti gli strumenti che ci sarà subito dopo. Sia chiaro, il tutto è molto godibile e persino indovinato e “compensativo”, ma l’escamotage è senza dubbio troppo abusato negli anni (da tutti) e richiederebbe forse un’evoluzione un po’ più accurata per poter “giustificare” certi innesti musicali. Fatta questa premessa obbligata si nota al minuto 1:04 un mix squisito tra Alison Hell dei già citati Annihilator e la monumentale Orion tratta da Master Of Puppets dei Four Horsemen. L’effetto è davvero interessante e la produzione di Bill Metoyer contribuisce non poco a ingannare la mente e a creare questo viaggio tra band e realtà così diverse. Il riff alla Orion è onnipresente durante l’intero brano, ma non stanca. Le incursioni alla Jeff Waters (sia chiaro, qui il valore tecnico dei due axemen Arthur Vinnett e Greg Messick non è assolutamente da meno) sono davvero pregevoli. Le loro parti strumentali e soliste sono tra le più belle dell’intera discografia degli Intruder. Qui ne danno prova lampante: gli arpeggi sono ben eseguiti, mai banali e soprattutto focalizzati per impreziosire il brano (magistrale il finale prima della reprise) e renderlo più completo. A tratti ricordano per stile ed esecuzione alcuni lavori del Maestro Alex Skolnick, eterna fonte di ispirazione soprattutto nei primi anni ’90.
Traitor To The Living è sporca e trasuda tutti gli stilemi del Thrash come lo conosciamo. Violenta quanto i lavori di Tom Araya e soci (da notare alcuni guizzi vocali di Hamilton e la loro somiglianza al frontman appena citato) è il brano più Slayer oriented con un groove spaccaossa. Il lavoro dietro le pelli di John Pieroni è superlativo, sempre nel brano e collante ideale per le continue sfuriate chitarristiche di Vinnett e Messick (qui alle prese con una prova decisamente sopra le righe). I cori chiudono in bellezza uno dei brani più intensi dell’intera discografia del combo. C’è molta più ricerca in questo disco e lo si sente dalle prime note. Brani molto lunghi (per lo standard di genere) e mai ripetitivi, Traitor To The Living raggiunge i 7:51 minuti e rappresenta più di tutti il livello ormai raggiunto dalla band: songwriting e tecnica di gran lunga superiore ai loro contemporanei. Oseremmo dire che dopo l’uscita di Rust in Peace del 1990 (che scosse in quegli anni l’intero sistema Thrash e non solo) i nostri abbiano voluto “chiudere in bellezza” la loro prima parte di carriera studiando come dei forsennati e richiudendosi in sala prove per poter sfornare il loro capolavoro e in un certo senso ci sono riusciti! Questo brano, riepilogando, è dall’ascolto obbligato per ogni fan del metal. Una performance d’eccezione.
La successiva Final Word conferma la sensazione di cui sopra, una ricercatezza (qui negli arpeggi distorti e nei contrasti delle lead guitar) di fondo anche nei passaggi più veloci. Ci sono continui cambi di tempo e il duo Vinnett/Messick che si esalta come non mai, qui sono molto più puliti in alcuni passaggi rispetto ai loro dischi precedenti e tecnicamente molto più maturi. Il “wall of sound” alla Master of Puppets (ascoltare per credere alcuni momenti qua e là all’interno del disco) che di tanto in tanto appare è sconvolgente in quanto a somiglianza. In questa song vi è davvero l’essenza sonora del ben più fortunato platter targato Ulrich & Soci.
Il disco si chiude con con N.G.R.I. (che sta per Not Guilty For Reason Of Insanity), altra gemma di questo Psycho Savant. Lo start è un po’ inusuale e le chitarre si incastrano in un tema simil-doom molto interessante per poi lasciar spazio alla violenza assoluta. Il drumming è in pieno stile Bay Area e Hamilton è in prima linea col quel suo timbro inequivocabilmente trascinante, a conferma del suo spessore tecnico e artistico. Qui nel bridge si fa anche uso di effetti ambient sulla voce, molto indovinati e mai eccessivi. La parte strumentale è davvero eclettica, sia nei riff che nelle esecuzioni dei soli. Come già detto in precedenza, per gli amanti dell’uso della leva del vibrato e del fenomenale Steve Vai, qui nel finale troviamo dei passaggi molto interessanti e senza dubbio molto d’effetto. Il finale del disco è di botto, come un po’ tutti i lavori degli Intruder, quasi a voler creare quell’effetto di “schiantarsi contro il muro” dopo aver corso per così tanto ad altissima velocità.
Un lavoro di tutto rispetto per una delle band più sfortunate di sempre dell’intero panorama. Una ristampa dall’acquisto obbligato.