Recensione: Psycroptic
Parecchie band, a un certo punto della carriera, decidono di dare all’album appena nato il loro stesso nome. Il perché si dovrebbe chiedere ovviamente agli interessati ma, restando nel campo delle ipotesi, si potrebbe pensare che ciò coincida con l’avvenuta consapevolezza, da parte delle band medesime, di aver raggiunto un buon livello di notorietà e, soprattutto, di attendibilità. Una sorta di ‘autocelebrazione’, insomma.
Così è per il sesto full-length degli australiani Psycroptic, intitolato, per l’appunto, “Psycroptic”. Certo, il campo è quello del death metal, per di più estremo, per cui appare difficile immaginare i Nostri alle prese con gossip e autografi. Dopo sedici anni di onorata carriera, tuttavia, è possibile aver la voglia di fissare indelebilmente nel firmamento musicale il proprio nome associandolo a un disco. O, ancor di più, rendersi conto e far sì che anche gli altri ne siano consapevoli, che lo ‘Psycroptic-sound’ è una solida realtà, ben consolidata, dotata di autonoma fisionomia e personalità. In un campo, quello del technical death metal, dove l’inflazione d’idee similari galoppa.
Occorre rammentare che gli uomini della Tasmania sin dagli esordi hanno mostrato un’attitudine innata ad andare per conto loro. Non si tratta certo dell’isolamento geografico, poiché con l’avvento di internet non esiste più luogo inesplorato o inaccessibile, quanto – davvero – di un talento evidentemente innato nel saper elaborare la propria proposta musicale in maniera se non proprio originalissima perlomeno pregna di carattere e particolarità. Lo provano i vari “The Inherited Repression” (2010), “Ob(Servant)” (2008) e compagnia cantante, indicanti una non comune capacità, da parte dei quattro di West Hobart, di arrampicarsi sulle più ardue pareti armoniche grazie a una tecnica strumentale enorme; senza mai perdere il focus dell’obiettivo primigenio: la canzone.
Anche “Psycroptic” è un’evidente rappresentazione di questo stato di grazia, giacché, in esso, nonostante l’estrema complicazione della trama compositiva dei singoli brani, quasi per… magia i brani stessi non fanno fatica a diventare memoria perenne nella mente dell’ascoltatore. Merito, anche di una rilevante diversificazione fra essi, a volte contraddistinti da segni che non si ripetono più, in altre eventuali occasioni. Ma, come deve essere, legati tutti assieme da un unico filo conduttore che altri non è che lo stile personale della formazione australe.
Affrontate una per una, le song rivelano costantemente qualche elemento di spicco, tale da chiudere senza tentennamenti il cerchio di ciascun episodio. Basti pensare all’hardcore slayeriano di “Setting The Skies Ablaze”, per esempio, o alla struggente atmosfera di “Sentence Of Immortality”, passando per il riff heavy di “Cold”. Il tutto eseguito senza strafare, senza farsi ossessionare dai tecnicismi fini a se stessi, senza farsi prendere dall’ansia da prestazione. La produzione asciutta, peraltro, aiuta chi ascolta a entrare in un modus concettuale di ordine, calma e fiducia nei propri mezzi. Che, messi assieme, determinano un sound assai elaborato ma altrettanto agevole da assimilare.
Poco altro da aggiungere: gli Psycroptic hanno una marcia in più rispetto al 95% degli act praticanti la stessa disciplina. Una sicurezza la quale porta a concludere che, con opere come “Psycroptic”, il technical death metal può evitare di fagocitare se stesso. Diventando base dorata per una composizione piacevole e, a tratti, addirittura accattivante. Calibrando tali aggettivi con quello che, alla fin fine, è la massa di una tonnellata di death metal brutale, duro e aggressivo.
Daniele “dani66” D’Adamo