Recensione: Psykhe Comatose Disorder

Di Alessandro Calvi - 17 Marzo 2014 - 9:30
Psykhe Comatose Disorder
Band: Dormin
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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65

Ascoltare musica, lo sappiamo tutti, in certi momenti può aiutare molto. Negli ultimi tempi si sente molto usare il termine musicoterapia, ma è da quando l’essere umano esiste che la musica è stata una stampella per i suoi stati d’animo. Ascoltare musica per esaltare le proprie emozioni, celebrare le proprie vittorie, fare da colonna sonora ai momenti più belli o confortare il proprio cuore dopo le delusioni. Ma anche comporre musica, trasporre in note i propri stati d’animo, vomitare su un pentagramma tutto ciò che si prova trasformando le proprie emozioni, il proprio dolore, la propria disperazione in linee melodiche, può essere una terapia. Da questo nasce “Psykhe Comatose Disorder”, album d’esordio dei Dormin, un vero e proprio concept autobiografico, basato sulla perdita della madre, divorata lentamente dal cancro, del cantante e chitarrista Rex.

Ciò che subito colpisce di questo disco è la genuinità, la sincerità della proposta. Non ci troviamo di fronte a un album pensato a tavolino, a canzoni scritte per inserirsi in un genere o in un filone che, magari, negli ultimi tempi va per la maggiore.
Nella loro parziale caoticità, le tracce che compongono “Psykhe Comatose Disorder” prendono spunto da tutto ciò che serve, da tutto ciò che si rende utile a trasporre in musica le emozioni, i sentimenti dell’autore. Spazio quindi a black, death, doom, shoegaze, avantgarde, ambient. Spazio a testi in inglese e in italiano, a scream, growl, parlato e a infinita serie di vie di mezzo. Il tutto senza soluzione di continuità, guidati nella scrittura solo dal bisogno intimo e istintivo di dare uno sfogo a ciò che si ha dentro. Un’attitudine che, per certi versi, può ricordare gli albori del black, ma in generale tutti quei gruppi e movimenti musicali che avevano qualcosa da dire e non si preoccupavano troppo di come lo facevano, se sapevano o non sapevano suonare, se registravano le proprie canzoni in cantina o in un vero studio, l’importante era buttare fuori tutto.
Il risultato è qualcosa che, oltre a suonare estremamente puro, senza filtri, è anche decisamente personale ed originale. Un sound che, per quanto purtroppo frutto di una tragedia, dovrebbe essere preso come esempio da tanti gruppi, ormai più interessati a cavalcare l’onda di questo o quel filone commerciale, che a essere sinceri verso sé stessi e la musica.
Se dovessimo basarci solo su questi elementi, quindi, “Psykhe Comatose Disorder” sarebbe un capolavoro senza se e senza ma.
Accanto ai lati positivi, però, non possiamo evitare di soffermarci anche su quello che funziona meno. Innanzitutto fin dalle prime note è evidente che ci troviamo di fronte a un disco che è stato autoprodotto, un demo in pratica, e che solo in un secondo tempo una casa discografica ha deciso di acquisire e distribuire. La produzione, infatti, è molto povera, per quanto spesso efficace per creare un effetto claustrofobico che accentua il valore dei testi, in alcuni frangenti, infatti, il suono degli strumenti è fin troppo sporco divenendo addirittura confuso. Anche il songwriting, per quanto ispirato e con tanti generi da cui prender spunto, alla lunga, sulle sette tracce che compongono l’album, risulta ripetitivo perché ripropone sempre la stessa struttura dei brani. La chitarra potrebbe osare un po’ di più, mentre spesso si riduce a fare da accompagnamento appiattendosi sullo sfondo; inoltre bisognerebbe sicuramente pensare di trovare un batterista vero, in grado di dare molta più profondità e varietà alla sessione ritmica e, di riflesso, ai brani nel loro complesso, rispetto alla drum-machine.

Per concludere “Psykhe Comatose Disorder” è un album che sicuramente lascia una grande impressione nell’ascoltatore. Innanzitutto è un lavoro molto, molto buono per un esordio discografico. Tanti gruppi non riescono a sfornare lavori di tale complessità e varietà neanche con molti più anni di esperienza alle spalle. Un album che ci presenta, finalmente, un gruppo più interessato a cosa vuole dire, che a come lo fa (pescando a piene mani ovunque gli servisse, tra tanti generi diversi). E questo, nel bene e nel male, si sente. Si sentono tutte le emozioni che hanno portato a scrivere i brani, tutto il dolore, la sofferenza, che si celano dietro quelle note. Ma ci son anche delle imprecisioni, dei piccoli errori che, siamo certi, i Dormin sapranno correggere col tempo. Con un esordio come questo è difficile dire fin dove possano arrivare questi ragazzi, ma se non perderanno l’attitudine che ha contraddistinto questo disco, siamo sicuri che sarà decisamente molto in alto.

Alex “Engash-Krul” Calvi

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