Recensione: Pull
Con i loro primi 2 dischi (Winger e In the heart of the young) Kip Winger, Reb Beach, Rod Morgenstein e Paul Taylor conobbero il successo da Airplay, video in rotazione su MTV e tour in giro per le arene di mezza America.
Era tuttavia evidente quanto al gruppo, e in special modo a Kip Winger (musicista, autore e compositore di grande talento con già all attivo diverse esperienze musicali! Non ultima quella con Alice Cooper Su Costrictor e Raise your fist in hell) questo status di rocker cotonato e seduttore di ragazzine andasse molto molto stretto.
L’anno era il 1993 e la scena rock americana, come il mondo musicale in generale, stava cambiando. La scena californiana, per quasi 10 anni capitale e indiscusso faro stilistico del movimento hard rock/metal americano, sapeva ormai di decadente e assieme a lei sembravano cadere anche tutti quei luoghi comuni, quegli “obblighi” stilistici e di immagine, che ogni gruppo sembrava dover per forza di cose possedere.
L’aria di cambiamento soffiava quindi tanto forte da sembrare un uragano e la direzione che il rock avrebbe intrapreso si poteva solo ipotizzare, ci si trovava ancora in un periodo transitorio che vedeva l’attenzione spostarsi sulla città di Seattle che aveva sfornato un paio di anni prima i primi lavori dalle vendite monumentali di Nirvana e Pearl Jam. Kip pensò che si trattasse del momento giusto per provare ciò che prima non gli era stato possibile: dare libero sfogo al suo talento creando un disco diverso dai precedenti che ne rappresentasse finalmente le idee, la passione e la personalità. Un disco con cui dare un taglio alle forzature legate al passato, ma secondo le sue regole.
Per questo, dopo una lunga gestazione e con un Budget di ben 300.000 dollari messi a disposizione dall Altlantic, vide la pubblicazione Pull, disco per la verità non troppo atteso in tempi in cui le rockstar stavano cedendo il passo a nuovi “miti” perdenti.
Già osservando l’artwork fù subito evidente che il gruppo era molto cambiato; l’abbandono di Paul Taylor(chitarrista/tastierista dei primi 2 dischi) per dedicarsi alla scrittura lasciò il gruppo in un inedita line up a 3. Il look, prima fin troppo importante e incentrato sulla figura del “bello” Kip Winger (cosa che li fece odiare da molti!), era ora molto più semplice e sobrio, mentre, il messaggio principale venne trasmesso dal cambiamento di logo.
Il cambiamento musicale lo si avverte subito dalle prime battute del disco in cui Kip Winger introduce la prima song cantando su dei cupi arpeggi acustici che mutano poi nel’l inizio di Blind Revolution Mad , song che spiazza l’ascoltatore abituato ai vecchi Winger e stupisce da subito per intensità e coralità. La sezione ritmica è in primo piano e le chitarre di Reb Beach e Kip dipingono degli arrangiamenti e rifiniture incredibili.
Con Blind Revolution mad i Winger non stravolgono il loro sound nel vero senso della parola.
Stesso discorso vale per la seguente Down Incognito , canzone scandita da una chitarra acustica quasi country e introdotta da un armonica, che sarà protagonista per tutta la song e a cui sarà anche affidato un gradevolissimo assolo centrale.Down Incognito è una canzone fantastica e riesce a stupire in quanto molto orecchiabile ma allo stesso tempo assolutamente originale. Sarà il primo singolo estratto dall album, accompagnato da un fantastico ed ironico videoclip che sembra ambientato sulle assolate strade del New Mexico. Da notare la superlativa prestazione vocale di Kip Winger, che sembra essere migliorato in maniera esponenziale rispetto alle precedenti realease, e che, pur senza snaturare il proprio stile, esplora nuovi tipi di sonorità e armonie vocali.
La seguente è una song lenta e romanticamente triste, Spell I m Under dedicata alla moglie e fortemente incentrata sulle melodie costruite dal duo “chitarristico” Winger/Beach e sulle riuscitissime e coinvolgenti armonizzazioni vocali di un Kip Winger espressivo e vario come mai prima d ora.
E’ appunto Kip a introdurre con un cantato ora molto più aggressivo, accompagnato da un frenetico fraseggio in “tapping” di Reb Beach, In my Veins. Song che vede appunto il chitarrista salire in cattedra, possentemente protagonista con ritmiche rocciose e metal alternate a parti più varie ma sempre dinamiche e tirate, con un assolo veramente ben fatto a supporto di una song dal refrain grintoso e particolare, ma ancora una volta irresistibile.
È veramente incredibile quanto questo gruppo aveva da darci oltre quei due, pur ottimi, primi dischi di hard rock/class metal, quanto aveva ancora da dimostrare Kip Winger sul suo vero valore di musicista e produttore.Ne si può prendere coscienza molto bene ascoltando Junkyard dog (tears on stone), canzone incentrata come la precedente, sulla chitarra di Reb Beach e su sonorità molto aggressive e heavy sia a livello chitarristico che vocale e che dopo un assolo veramente ben fatto e un ultimo ritornello, muta in maniera assolutamente inattesa in arpeggi acustici su cui Kip Winger dipinge delle suggestive linee vocali che nulla sembrano avere a che fare con la song che fino a quel momento si era sentita. Sembra razionalmente impossibile che due parti così differenti possano convivere nella stessa song senza risultare assolutamente estranee o senza presentare un vistoso “salto” stilistico. Eppure Junkyard dogs (Tears of stone), grazie al talento immenso del suo singer e arrangiatore, suona in ogni sua parte ed evoluzione incredibilmente coerente.
Non si può certo dire che Pull sia un disco prevedibile. Ogni composizione trasuda passione e talento come mai era successo ascoltando un disco dei Winger, ed è evidente che Pull è il disco di Kip. Lo si può notare su In For the Kill, in cui Kip canta con un espressività e una varietà sbalorditiva. A partire dall’intro, in cui la sua voce accompagnata da un organo rende subito l’ idea della rabbiosa drammaticità della canzone il cui testo è una severa, violenta ma intelligente (non certo come capita oggi, in cui è solo una delle tante mode!) condanna della politica guerrafondaia Americana. Si tratta di uno degli episodi più intensi del disco, senza dubbio il più “teatrale”, caratterizzato da una parte centrale che strumentalmente può rimembrare echi Zeppelliniani e che è arricchita da immensi ed emozionanti cori.
Con la seguente No man’s land le sonorità ritornano sui binari più strettamente Hard Rock di matrice ottantiana. Una chitarra ed una sezione ritmica accattivanti, molto più groovy rispetto ai precedenti episodi, e una linea vocale che culmina in un grandioso ritornello, rendono No Mans Land la canzone che più di tutte si avvicina alle sonorità della vecchia discografia dei Winger, in particolare dal riuscitissimo In the heart of the young. Anche qui, un Reb Beach in grande spolvero ci delizia con un grande solo all altezza del suo nome.
Sembra seguire le stesse orme della precedente Like a Ritual, altra grande hard rock song che inizialmente può sembrare coerente con la vecchia discografia dei Winger, ma che sorprende quando al momento del ritornello muta stilisticamente in un riff aggressivo, mettendo in primo piano la batteria di Rod Morgestein, che vedrà il suo momento nell’assolo finale dal gusto quasi etnico/tribale.
Da notare la prestazione, in tutto il disco assolutamente al di sopra delle righe, di Reb Beach, chitarrista e compositore dotato di grande talento e di una solida e personale tecnica, e di un sottovalutato Rod Morgestein, batterista tutt’altro che ultimo arrivato che vantava già collaborazioni illustri con musicisti del calibro di Steve Morse(sul mitico Introduction) e che ha recentemente preso parte al progetto JellyJam con John Myung dei Dream Theatre!
A concludere Pull non poteva mancare l’obbligatoria ballad ( in quel periodo per quanto riguarda i gruppi rock, le ballad erano le uniche canzoni considerate!): Who’s the one. Ma anche con questo brano Kip Winger non vuole propinare qualcosa di scontato, e crea un altro vero e proprio capolavoro di composizione, interpretazione ed arrangiamento (ricordo che kip winger ha nel suo background musicale proprio gli studi di chitarra classica) e non la solita scontata canzonetta acustica per ragazzine adolescenti. Nonostante ad una prima impressione sembri avere qualcosa in comune con la Bonjoviana “Wanted dead or alive”, Who s the one si rivela subito una canzone intimista ed emozionante che sembra aprire una nuova strada nel futuro musicale di questo autore dalla personalità artistica ora più che mai forte e passionale quanto riflessiva e travagliata.
Sarà proprio Who s the one tra i singoli lanciati, insieme a ben 3 altre canzoni(Down Incognito, Spell I m Under e In my Veins) per la promozione di Pull, quello che riceverà più consensi.
Inutile dire che, in pieno periodo grunge e nonostante ben 4 singoli e videoclip a supporto, Pull faticò molto a trovare spazio sul mercato e chiaramente non ottenne che briciole di ciò che avrebbe meritato soprattutto in proporzione alla sua qualità superlativa, accontentandosi di un misero 83 posto nelle chart americane che negli anni precedenti aveva visto sempre il gruppo protagonista nei “quartieri alti”.
Con Pull il gruppo aveva pubblicato quello che si potrebbe benissimo considerare il suo miglior platter ma anche e soprattutto uno dei più bei dischi di tutti gli anni 90′. Un disco sincero, un grandissimo disco di hard rock tutt’altro che scontato.Un disco talmente ben curato e coerente in tutto da sembrare quasi un concept.Un disco in cui la band, chiaramente soprattutto Kip Winger, mostra il suo talento così come mai nessuno lo aveva potuto ammirare, dimostrando, a chi non aveva guardato oltre i capelli cotonati e gli abiti in pelle, di essere musicisti di grande talento e spessore.
Ma da allora, per tutti i 90′ non saranno più questi i valori che il mercato cercherà di promuovere e valorizzare, e per i gruppi come Winger non sarà più tempo. I Winger Avevano mostrato, in tempi di cambiamento, quale era la loro direzione musicale, la loro idea di evoluzione. Una proposta, la loro, che se fosse stata realmente considerata forse avrebbe veramente portato qualcosa di nuovo nel mondo del rock.