Recensione: Pulsar
50
Dopo essersi tolti lo sfizio di produrre un disco di sola musica classica con il precedente “Mediceo”, gli Inner Shrine rientrano in più consoni territori metallici con “Pulsar”. Per l’occasione, fa gradito ritorno nei ranghi Claudio Tovagli, batterista e membro fondatore che va a ricomporre lo storico duo con l’altra “mente pensante” Luca Liotti.
Concept sulla fine del mondo e successiva creazione di una nuova specie, il nuovo lavoro degli Inner Shrine si fa portatore di un gothic metal “futuristico” ed apocalittico, ma incapace di scuotere le menti ed affascinare gli animi
.
Le sonorità romantiche e sognanti dei primi tre lavori vengono si riabbracciate, ma soltanto in parte. Una valenza importantissima la gioca oggi l’elettronica più oscura e minimale che si va ad innestare nelle oppressive e decadenti trame tessute dai toscani. Per avere un’idea, immaginate un incrocio tra i My Dying Bride di “Like Gods of the Sun”, i Void of Silence di “The Grave of Civilization” e certa musica dark ambient.
Il risultato è un album ostico, di difficile ascolto e comprensione, oltretutto appesantito da fattori non trascurabili come la voce praticamente sempre filtrata e la produzione fin troppo scialba, raffazzonata e per questo del tutto inadatta a far decollare i brani più stratificati e complessi come “Four steps in grey”, eterea e solare nelle intenzioni ma decisamente sconclusionata nel complesso.
“The last day on earth” e “The rose in the wind” sono sicuramente le canzoni migliori del lavoro, due pezzi di melanconico death-doom dove possiamo udire anche lontani echi dei primi Katatonia ed Anathema. Per il resto, siamo al di sotto della sufficienza, non assistiamo ad altri picchi degni di nota e neppure gli episodi più aggressivi e violenti riescono a creare un reale interesse.
Purtroppo, quando si affronta un percorso artistico volta alla sperimentazione e all’esplorazione di nuove soluzioni, capita di incappare in un passo falso, in una battuta a vuoto: per gli Inner Shrine, “Pulsar” sembra proprio questo.
Matteo Di Leo.
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