Recensione: Queensrÿche
Si potrebbe certamente scrivere un trattato di sociologia sul cambio di frontman delle band rock più famose a livello planetario. Non ce ne vogliano i vari strumentisti, ma è innegabile che, sia da un punto di vista strettamente musicale che di immagine, il cantante è probabilmente la figura che più di tutte incarna l’anima del gruppo. Quando poi si tratta di band che hanno nella voce l’elemento centrale di buona parte dei pezzi, allora l’avvicendamento di questo ruolo può divenire traumatico. Solo in ambito hard’n’heavy, innumerevoli sono gli esempi in questo senso; da una parte, ci sono state quelle band che, forse impossibilitate a fronteggiare il talento e il carisma del vocalist in partenza, hanno scelto la (disastrosa) soluzione del gregario, se non del vero e proprio illustre sconosciuto (qualcuno ha pensato ad Iron Maiden e Judas Priest?); altri gruppi, invece, hanno coraggiosamente puntato sul cambiamento più o meno radicale con il passato, puntando su sostituti che, a prescindere dalle capacità, erano dotati di caratteristiche vocali decisamente personali e distinguibili (e non si può pensare a Black Sabbath, Deep Purple, Helloween). Ci sono infine casi più particolari e meno numerosi, dove la scelta del sostituto ha visto la band riuscire nel tentativo di scovare nei meandri dell’underground il talento nascosto, ma capace di emulare in tutto e per tutto il vocalist in partenza, riuscendo a guadagnarsi la fiducia dei fans, anche di quelli più oltranzisti. Torna in mente, in questo senso, la scommessa dei Journey nel puntare sul misconosciuto Arnel Pineda per prendere il posto che nel cuore di tutti gli appassionati apparteneva a Steve Perry.
Ed è proprio a quest’ultimo esempio non si può non pensare prendendo in esame gli eventi che hanno portato i Queensrÿche a scegliere Todd La Torre come nuovo cantante, per sostituire “Sua Maestà” Geoff Tate. Conosciuto praticamente solo per l’attività live con i Crimson Glory, La Torre (in origine batterista) è quel tipo di vocalist dotato e versatile capace fino ad esso di emulare i suoi grandi predecessori, ma con personalità ed esperienza ancora tutte da costruire. A prescindere da un curriculum ancora limitato, si può dire che la band di Seattle abbia puntato su un “cavallo sicuro” per tornare sul mercato con il suo omonimo lavoro dopo la separazione da Tate, dolorosa e piena di strascichi legali. Sicuro, perché, al di là dal legame affettivo che i fan possano nutrire nei confronti del suo illustre predecessore, è innegabile che La Torre copra il posto vacante in modo sostanzialmente ineccepibile. Vedremo poi con il tempo e, soprattutto dal vivo, se quanto di buono sentito su Queensrÿche a livello puramente vocale sarà il primo tassello di una carriera convincente.
Fatta questa doverosa premessa, la curiosità nell’approcciare l’album oggetto della recensione è forte, specialmente se si pensa all’inevitabile confronto con Frequency Unknown, il (deludente) lavoro da poco pubblicato dalla diretta concorrenza, ossia dalla versione dei Queensrÿche “Geoff Tate”-fronted. Diciamo subito che anche da un punto di vista strettamente musicale i Nostri sono andati sul sicuro, tirando fuori dal cilindro una raccolta di pezzi che guardano certamente ai tempi d’oro della band, scevri dalle divagazioni off-rock che avevano caratterizzato gli album della Regina del Reich negli ultimi anni. Queensrÿche è un lavoro snello, frizzante e ispirato quel tanto che basta per permettere alla band di ristringere un’alleanza con la sua fan-base che ultimamente si era indebolita, per usare un eufemismo. Poco più di mezz’ora per riprendere un discorso interrotto da tempo e possiamo affermare che anche la scelta di proporre un lavoro di breve durata sia da condividere, in quanto sinonimo di concretezza e messa a fuoco, elementi cruciali per affermare una nuova partenza. Where Dreams Go To Die da sola basterebbe a rappresentare quello che sono i Queensrÿche oggi: produzione e suoni sofisticati per un class metal evoluto ma che non rinuncia al ritornello di sicura presa; un tuffo nel passato che riporta indietro di più di vent’anni, subito messo però in discussione dalla successiva Spore, più eclettica e cervellotica, con venature prog che si percepiscono soprattutto al livello delle ritmiche. Melodia e coralità sono i temi costanti dell’orecchiabile In This Light, gradevole ma poco incisiva, se si eccettua il bell’assolo assolutamente nello stile della band. Non impressiona Redemption, leggermente fuori focus (anche se la prestazione di La Torre è di categoria), mentre la successiva Vindication è energica e dinamica, specialmente nel chorus. Velocemente e in modo sostanzialmente lineare siamo già arrivati a 3/4 di album: e questo è un altro elemento da sottolineare in questo ritorno su cd dei Queensrÿche: l’evidente voglia di evitare scossoni nell’ascoltatore, una sorta di implicita rassicurazione di stabilità: “le sorprese sono finite, dove eravamo rimasti“? O almeno è questa la sensazione che si percepisce pezzo dopo pezzo. A World Without ci riporta ancora una volta alle atmosfere del passato, questa volta in chiave riflessiva ed oscura (ammettiamolo, quanta nostalgia per le crisi esistenziali del mai dimenticato Nikki!), dove i versi sono a volte sussurrati, a volte sembrano vane grida nel silenzio: pezzo decisamente struggente e un’altra buona prova per Todd La Torre. E a proposito di prestazioni, dopo aver elogiato le qualità canore del nuovo frontman, possiamo considerare buona anche la prova dei suoi compagni, con un Parker Lundgren che non è Chris De Garmo, ma sembra sempre più integrato nella band. Ci si avvia verso la fine e la qualità dei pezzi rimane più o meno sullo stesso livello (l’assenza di grossi cali, ma anche di momenti eccellenti è una caratteristica evidente dell’album): la breve Fallout ha un buon tiro e linee vocali convincenti e lascia in fretta lo spazio alla conclusiva Open Road, nuovamente lenta, cerebrale e malinconica.
Difficilmente catalogabile tra i capolavori della loro discografia, l’omonimo ritorno sulla scena dei Queensrÿche rimane comunque un’uscita positiva, convincente quel tanto che basta per permettere alla band di Seattle di riguadagnare la reputazione andata ultimamente persa, vuoi per vicende extra-musicali decisamente sopra le righe, vuoi per produzioni musicali non pienamente soddisfacenti, quando non davvero deludenti. L’alba di un nuovo inizio? Da appassionati di buona musica ce lo auguriamo, da affezionati ad una band simbolo della nostra Musica lo speriamo davvero.
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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