Recensione: Quiet World
Il bar del prog ha le pareti nere e asettiche; l’entrata è lugubre, l’insegna lampeggia in 4/4 e un biliardino dismesso contro la parete vanta 3-4 centimetri di polvere sedimentata in pochissimo tempo. La porta del ripostiglio è socchiusa e lascia intravedere tutta una serie di variopinta oggettistica proveniente dagli anni ’70; la moda del revival è durata poco, giusto qualche disco da parte dei maggiori esponenti contemporanei e tutti gli entusiasmi sono andati scemando in qualcosa di più sinistro e oscuro. Grandi capolavori ha prodotto la febbre del vintage, talmente grandi da essere diventati un gigante dimenticatoio. Il prog oggi è un genere strano in cui passa per capolavoro qualsiasi cosa abbia un nome più o meno famoso scritto sopra; mai ci saremmo aspettati di vedere il nero sovrastare l’ingegno, eppure.. Stefano Benni nella zuccheriera del bar mise uno scarafaggio, Edoardo per la precisione; se avesse la parola descriverebbe una clientela dal colorito grigiognolo, o meglio, tra il grigiognolo e il cianotico, dallo sguardo mogio e con una lametta sempre a portata di mano. Vedrebbe sui tavolini riviste di introduzione al cappio e saprebbe che al gestore fu necessaria l’implementazione di un’enorme sputacchiera convertita in raccoglitore per lacrime. Di questo oggi siamo costretti a parlare, di un genere che non sta progredendo ma regredendo; stiamo parlando di quella libreria nel bar zeppa di storie stucchevoli e dal piagnisteo facile che fa passare emotività da quattro soldi per grande spessore artistico. Il trend oggi è questo e alcune band ci sono cascate come una pera cotta, snaturando la loro essenza in virtù di una moda o, ancora peggio, con l’orizzonte del soldo facile.
Proviamo ora ad immaginare cosa accadrebbe se nell’attuale bar suonassero le note di Quiet World dei Native Construct.. Band sconosciuta, esordiente e prodotta dalla Metal Blade; si, avete capito bene, da un’etichetta che ha la maggior parte del roster composto da musica estrema di ogni tipo ma non ha esitato a mettere sotto contratto questi ragazzi che, giovanissimi, si sono conosciuti e hanno fatto nascere il progetto al Berklee College Of Music di Boston. Quiet World è nato prevalentemente come una jam session, cosa che risalta in maniera prepotente durante tutta la durata dell’album; è un concept che parla dell’amore non corrisposto di un ragazzo muto verso una ragazza che proprio non ne vuole sapere. Questi, tra instabilità, ossessione e risentimento, crea per se stesso un nuovo mondo senza emarginati, un mondo più tranquillo..
I presupposti sono semplici ma sfornano un disco di una complessità inaudita, oltre a una maturità stilistica invidiabile. Quiet World è una bomba, nel vero senso della parola: appena parte è un’esplosione di colori, emozioni, stati d’animo in grado di lasciare l’ascoltatore sbalordito più e più volte. E’ un disco molto tecnico, zeppo di soluzioni atipiche e bislacche, dal quale emerge solo una gran passione unita a voglia di fare, fare bene e stupire. Il mood è sognante e arioso, rende benissimo l’idea della storia che sta raccontando e non solo, la dipinge pennellata dopo pennellata nella mente dell’ascoltatore e in qualche modo lo arricchisce. La prestazione dei ragazzi è ineccepibile e il lavoro in fase di arrangiamento è stato certosino; non è chiaro nemmeno nel booklet se la batteria sia stata suonata o programmata con una drum machine, domanda che lascia presto il tempo che trova in favore di un ascolto che non cede praticamente mai. Quiet World trasforma in pregi anche i suoi difetti più evidenti che sono due: la troppa ostentazione di troppe cose e l’ingenuità di alcuni passaggi. I cambi di umore sono innumerevoli e una buona parte del disco non propone mai la stessa battuta in maniera uguale, questo potrebbe di primo acchito risultare ostico e scoraggiare anche un ascoltatore molto esperto; il tutto però suona talmente bene da divertire e annientare quasi subito tutti i pensieri contrari. L’ingenuità si presenta in alcuni punti, davvero esagerati e incastrati a forza tanto per far vedere che; tutto il resto però rende l’imperfetto parte di se trasformandolo in indispensabile. Fosse stato perfetto, Quiet World sarebbe stato un altro disco, sicuramente molto più freddo e incolore; la sregolatezza qui è il fulcro di tutto il discorso e lo fa funzionare in maniera dannatamente efficace. Il disco suona tantissimi generi in maniera disarmante: da partiture care ai Dream Theater alla musica da camera, dalle marcette trionfali alle atmosfere circensi – cartoonesche, dai momenti oscuri e sinistri fino a vere e proprie sfuriate death metal. E’ presente il groove e l’uso delle tastiere è notevole e amalgamato benissimo; l’uso dei blast beat è originale e totalmente inconsueto, lo si può trovare in momenti pesanti come in momenti sinfonici da sigla televisiva fino al sentirlo come ponte di unione tra battute assolutamente incompatibili. La chitarra a dire il vero non ha un gran suono, ma accompagna bene e ben si difende anche nelle parti più solistiche; la voce di Robert non è mai banale e non cerca mai la melodia facile, non è mai gratuitamente stucchevole pur rimanendo orecchiabile e non scende mai a compromessi con la parte strumentale. Ci si adatta e amalgama senta troppi problemi risultando centrata e azzeccata in praticamente tutto il disco, anche quando apparentemente va per i fatti suoi.
Proviamo quindi a immaginare quando nel bar del prog suona tutto questo, proviamo a inserire il mondo quieto dei Native Construct in un tessuto depresso e dalla carenza di idee talmente grossa dal ridursi a sembrare un Harmony di bassa lega; proviamo a tornare a quel periodo in cui il prog era prima di tutto un’idea non ecologica, non riciclata con tantissime personalità a se stanti. Proviamo a vedere cosa succederebbe se nel bar del prog facessimo suonare un gran disco concepito da emeriti sconosciuti, in grado di spiegare a certi nomi il termine “progressione”..
La risposta?
Nulla.
Non succederebbe nulla.