Recensione: Qu’il Passe

Di Matteo Bevilacqua - 19 Maggio 2023 - 22:52
Qu’il Passe
Band: Hypnagone
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Progressive 
Anno: 2022
Nazione:
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75

Gran bella sorpresa questi Hypnagone, gruppo francese autodefinitosi Modern Metal. Il loro debutto Qu’il Passe combina le sonorità atmosferiche e di influenza jazz dei Cynic con un metalcore complesso ma orecchiabile di richiamo Textures, con infine una spruzzata di djent per completare il mix.

Viaggio simbolico che affronta il tema della solitudine, Qu’il Passe è ambientato in una giungla di cemento circondata dalla natura. Il senso di intrappolamento all’interno di una società rigidamente strutturata e il conseguente desiderio di libertà sono evocati dalla struttura di travi presente in copertina, un montaggio di architettura brutalista realizzato dal bassista e compositore principale Antoine Duffour.

Si apre con “Arrival”,  un breve brano d’atmosfera, composto per lo più da tastiere che salgono e scendono di intensità e dinamica.

Gran bella introduzione, ma tuffiamoci nel primo brano vero e proprio, “Shibboleth”, un’opera di ben nove minuti. I toni iniziali sono tranquilli, ma evolvono rapidamente per mezzo di un basso martellante e ritmiche serrate. Le melodie sono orecchiabili e sofisticate allo stesso tempo. Si tratta di materiale complicato, ma che rimane comunque accessibile fin dal primo ascolto.

La successiva “Spannunsbogen” inizia con un’esibizione di abilità strumentale a tutto campo, con voci profonde e aspre e un suono più cupo rispetto al primo brano. Ancora una volta, il basso di Duffour è molto presente. Anche qui si mescolano alcuni elementi atmosferici e le transizioni tra passaggi duri e puliti sono perfette.

I toni diventano più introspettivi con “The Step Inward” che presenta splendide melodie vocali in apertura, per poi passare a un suono più pesante e aggressivo. Nella parte centrale si torna a passi tranquilli e dolci e il brano si rivella una vera gemma. La transizione con la successiva “Moss” è fluida e i nostri confezionano un’altro brano di facile ascolto con toni malinconici e riflessivi.

“L’Arbre” vede la band al massimo del suo stile jazz, quasi nel territorio degli Exivious. I cambi di ritmica sono sottili e gestiti con maestria. Verso la metà del brano troviamo uno splendido assolo di chitarra di Yann Roy, seguito da accenti più duri per giungere al finale trionfante.

“White Fields” è un’altro capolavoro, intriso di elementi pesanti ed emotivamente carichi, e presenta addirittura un insolito assolo di sassofono che intona un lamento ossessionante. La dinamica si gonfia gradualmente fino a diventare pura rabbia intorno alla metà del brano, e come da copione si placa nuovamente, sostituita da toni più morbidi e introspettivi. Il brano si conclude lasciandoci un senso di pura angoscia.

“Elegy” è un nuovo momento di riflessione, in cui i toni tesi si combinano con parole parlate di difficile comprensione, e si ha la sensazione che l’album stia per subire una brusca svolta.

“Dross” è più astratta, caotica ed eccentrica. I ritmi costruiti al suo interno sono densi e precisi, la batteria di Jérôme « Jackou » Binder colpisce gli accenti con una mira micidiale. Ritmica e suono cambiano più volte nel corso della breve traccia, quasi sfidando l’ascoltatore a tenere il passo. Il lavoro combinato di basso e chitarra è impeccabile.

Rieccoci con un’opera di quasi nove minuti con “The Mind Derailed” . In apertura la voce graffiante di Adrien Duffour si combina con un lavoro di chitarra dissonante. Il tutto si riversa con facilità nel ritornello denso di armonie vocali pulite. La sezione centrale è composta da un pattern ritmico che ben si addice al titolo del brano. Infatti la nostra mente deraglia e vaga confusa nella tempesta sonora generata per poi tuffarsi  in acque più calme.

“Light Bulb” chiude l’album. Si tratta di una chiusura cupa e minimale, con poche note di chitarra pulita, e il senso di ansia che pervade tutto l’album è racchiuso in questo ultimo intervento.

Con poliritmi jazzati, ritornelli orecchiabili e momenti propriamente prog metal, gli Hypnagone sono una band estremamente dinamica, che passa dalla pura pesantezza a sezioni più melodiche in un batter d’occhio. La voce di Adrien Duffour è versatile, con un’invettiva metalcore nelle sue asprezze, e con un clean che ricorda Daniël de Jongh dei Textures. Naturalmente il lato più jazz del sound degli Hypnagone è guidato dal lavoro del basso fretless ispirato ai Cynic, che è davvero impressionante, nonostante tutti gli altri membri sappiano chiaramente come muoversi nel territorio jazz. La combinazione di prog, jazz e metalcore si fonde perfettamente in un prodotto fresco, e il talento mostrato qui è eccezionale. A parere di chi scrive, forse la lunghezza e le incursioni ambient di Qu’il Passe frenano il godimento generale, ma si tratta di un piccolo appunto, perché l’album è un debutto incredibilmente solido di un gruppo di musicisti che ha una lunga e prospera strada davanti a se.

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