Recensione: Raise A Little Hell

Di Stefano Burini - 18 Aprile 2015 - 0:01
Raise A Little Hell
Band: The Answer
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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70

Strano fenomeno quello del cosiddetto “retro rock”. Un’etichetta dietro alla quale si nascondono (o vengono infilate a forza, a seconda dei casi) tutte quelle band che fanno del suono e dell’estetica dell’hard rock settantiano – psichedelico e un bel po’ freakettone – la loro ragione di vita.

Si tratta di qualcosa che va ben oltre il revival o il semplice omaggio: sostanzialmente una riproposizione di tutti quegli stilemi – anche estetici – tipici dell’epoca d’oro dei vari Led Zeppelin, Free, Bad Company e compagnia, caratterizzata da uno sguardo oltremodo riverente. Quello che si ha di fronte a quelle opere d’arte che appaiono insuperate e insuperabili, al più semplicemente replicabili.

Tra i maggiori esponenti della corrente, a fianco degli ormai defunti Black Country Communion e di altri nomi ormai divenuti piuttosto noti – come per esempio i Rival Sons o, per certi versi, i Black Stone Cherry – vale la pena di citare i The Answer. All’alba del quinto album da studio in ormai quindici anni di carriera, la proposta dei nordirlandesi non rappresenta di certo una sorpresa. Gli ingredienti? Chitarre polverose, riff rotolanti e una voce – quella di Cormac Neeson – equamente divisa tra il registro più acuto e “urlato” tipico di Robert Plant e quello più bluesy e suadente del primo Coverdale. Il tutto, ovviamente, immerso in un sound e in un’atmosfera che più vintage non si può.

Viste le premesse, attendersi da “Raise A Little Hell” qualcosa che vada oltre il percorso devotamente tracciato e seguito negli anni fino ad ora sarebbe quanto mai insensato: su queste sonorità i The Answer giocano in casa e, a patto di chiudere un occhio sulle frequenti “citazioni” dei tempi che furono, è anche possibile lasciarsi andare e divertirsi.

“Long Live The Renegades”, con il basso pulsante e la chitarra “spezzettata” vagamente Ac/Dc, apre le danze con il giusto brio e con una buona dose di melodia; seguono le altrettanto riuscite “The Other Side” e “Aristocrat”, sempre in bilico tra Led Zeppelin e primi Whitesnake, mentre la ciondolante “Cigarettes & Regret” pare rifarsi maggiormente ai The Black Crowes.

“Last Days Of Summer” è lenta, abbacinante e psichedelica, ai limiti dello stoner rock: tra le pochissime – leggere – “uscite di pista” eppur tra le cose migliori dell’intera tracklist. Male, al contrario, la leggera e parecchio sbiadita “Strange Kinda Nothin’”, sorta di ballata rurale priva di mordente e troppo tirata per le lunghe, così come la tutt’altro che memorabile “Whiplash”, aggressiva ma di nuovo piuttosto noiosa e priva di reali spunti di interesse.

Giungono, per fortuna, in soccorso la rockeggiante “I Am What I Am” – vagamente glam à la The Darkness – e le robuste “Gone Too Long” e “Red”, due pezzi nei quali i The Answer declinano il blues e southern rock più classici con un groove à la Black Stone Cherry decisamente centrato.

Il finale riservato alla granitica “I Am Cured” e alla più canonica title track non aggiunge né toglie nulla ad un album che si lascia ascoltare molto volentieri e che non farà fatica a farsi voler bene dai nostalgici dei magici ‘70’s.  Se, al contrario, pur amando il buon vecchio hard rock, non digerite più di tanto questo genere di operazioni nostalgia dal gusto totalmente derivativo, nonché prive di qualsivoglia accenno di personalizzazione o imprevedibilità, forse è meglio che rivolgiate il vostro sguardo (e i vostri ascolti) altrove.

 

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