Recensione: Raise the Curtain
Si alzi il sipario. Il Mountain King è tornato. Anzi, è arrivato: Raise the Curtain rappresenta, infatti, il primo album solista di Jon Oliva e giunge a trent’anni esatti dall’uscita di quel Sirens che avviò la carriera dei Savatage. Assieme al sempre compianto fratello Criss (mancato nel 1993), Jon è stato l’anima dei Savatage, una band la cui personalità distintiva ha segnato prepotentemente il mondo dell’heavy metal grazie soprattutto alla triade memorabile costituita da Hall of the Mountain King (1987), Gutter Ballet (1989) e dal concept album Streets: A Rock Opera (1991).
Al netto della Trans-Siberian Orchestra (di fatto, un impegno a sé stante), nel tempo intercorso tra Streets e Raise the Curtain, Jon Oliva si è prima divertito con i folli Doctor Butcher (side-project della band-madre datato 1992) per poi fondare, una decina di anni or sono, i Jon Oliva’s Pain, autori di quattro dischi di buona fattura. La morte del chitarrista Matt LaPorte nell’Aprile del 2011 ha purtroppo portato i Jon Oliva’s Pain a una battuta d’arresto, rappresentando il prodromo proprio a Raise the Curtain, che viene realizzato sotto il monicker di Oliva.
A conferma della natura solista di Raise the Curtain, oltre a cantare Jon ne ha suonato il più delle parti strumentali: tastiere, chitarra (qui e là lasciata a Howard Helm), basso e anche batteria (tranne in tre canzoni, dove pelli e piatti sono nelle mani di Chris Kinder, batterista dei Jon Oliva’s Pain). Pur rimanendo Jon il principale compositore dei pezzi di Raise the Curtain, come accaduto a più riprese anche con i Jon Oliva’s Pain, alcune canzoni recuperano idee musicali (soprattutto riff) di Criss Oliva. Inoltre, Jon pare aver trovato un nuovo compagno di scrittura in “Doc” Dan Fasciano.
Raise the Curtain assomma molte caratteristiche della musica che Jon Oliva ci ha regalato in questi trent’anni, includendo pezzi sì diversi tra loro, ma egualmente ben amalgamati in un quadro coerente e decisamente personale.
Ascoltate la traccia d’apertura, omonima del disco: una overture (quasi) strumentale tra il metal sinfonico dei Savatage, il pomp-rock dei Kansas e Sgt. Pepper. Il pezzo fa perfettamente fronte al proprio ruolo, sapendo introdurre l’ascoltatore al disco senza scadere nelle banalità che caratterizzano molte intro, in virtù di un dinamismo davvero piacevole.
Come detto, il disco è cangiante. Così come la copertina (impossibile non pensare a Gutter Ballet), alcune tracce richiamano i Savatage d’annata: un esempio è Soul Chaser, che farà la felicità di chi conosce a memoria i solchi di Hall of the Mountain King, riuscendo tuttavia a non risultare un mero esercizio d’imitazione, ma suonando anzi come un fresco esempio della vena compositiva di Oliva.
Anche Ten Years odora dei tempi che furono, pur maggiormente ibridizzandoli con le atmosfere dei Jon Oliva’s Pain.
Father Time rappresenta uno degli apici del disco. Se l’apertura quasi funky non lascia sperare niente di buono, il prosieguo rivela un pezzo che incrocia sapientemente hard rock di sapore settantiano con l’heavy metal di stampo tipicamente “oliviano”.
Segue I Know e l’atmosfera si fa quasi teatrale, ricordando i momenti più introspettivi di Streets. Pianoforte e chitarra acustica supportano una splendida linea melodica che non faticherà a entrare nei cuori degli appassionati. Belle emozioni.
Grande attacco quello di Big Brother, con le tastiere di Oliva sugli scudi. I Doctor Butcher fanno capolino qui e là e impreziosicono di soluzioni non banali un pezzo altrimenti non memorabile.
Armageddon richiama, invece, alcuni momenti del periodo più tardo dei Savatage, quello centrato intorno a The Wake of Magellan (1998): suoni pomposi, dunque, e una epica pesantezza cadenzata, di cui Oliva è vero maestro.
Segue Soldier che è nientemeno che la nuova, bellissima ballad di Jon Oliva. Potrei dire che il riferimento principale del pezzo sia ancora il tempo ormai lontano di Streets, ma in vero Soldier riassume bene lo stile che ha contraddistinto tutte le ballad di Jon nel corso dei decenni e, dunque, rappresenta un ulteriore (fulgido) esempio di uno stile tanto definito da essere immediatamente riconoscibile.
Più retro è Stalker che, però, faticherà non poco a farsi ricordare negli anni, così come The Witch che, pur forte di un bell’arriangiamento e di una struttura dinamica, scorre senza lasciare troppo il segno.
Infine, Can’t Get Away è un pezzo lento che vive intorno a un buon groove e odora di anni settanta e ultimi Beatles, dimostrando un’altra volta la poliedricità della proposta di Jon Oliva. Egualmente, la bonus track The Truth richiama le influenze della band di Liverpool e di nuovo ci presenta un Oliva lontanissimo dall’heavy metal comunemente inteso.
Come traspare dall’analisi delle singole canzoni, Raise the Curtain è un caleidoscopio capace di fornire un quadro pressochè esaustivo di trent’anni di Jon Oliva. In questo senso, il disco ricopre ottimamente il proprio ruolo di episodio solista all’interno della discografia del cantante e polistrumentista americano.
Jon Oliva è il Mountain King dell’heavy metal: non può non essere apprezzato, sia in virtù delle perle che ci ha donato in questi tre decenni (Believe è un vero inno), sia grazie a nuove uscite che non fanno rimpiangere i tempi andati. Raise the Curtain è l’ennesima conferma dell’ispirazione di Jon Oliva: che duri ancora a lungo.
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