Recensione: Raised In Captivity

Di Francesco Maraglino - 9 Luglio 2011 - 0:00
Raised In Captivity
Band: John Wetton
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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79

La discografia di John Wetton ( di recente particolarmente prolifica ed articolata tra album rilasciati con gli Asia, gli Icon e in qualità di solista) si arricchisce di un ulteriore capitolo, intitolato “Raised In Captivity”, che vede il titolare dell’opera affiancato questa volta dal polistrumentista e produttore Billy Sherwood (Yes, Yoso, World Trade).

Ad arricchire ulteriormente il lavoro, sono presenti anche diversi pregevoli cameo d’altrettanti musicisti, molti dei quali hanno già partecipato al lungo, frastagliato, e, a tratti, accidentato percorso artistico di John Wetton: quasi ad effettuare una celebrazione di tale passato, che ha visto il bassista/cantante militare in formazioni quali King Crimson, U.K., Roxy Music e Uriah Heep.
“Raised in Captivity” è sostanzialmente il tipo di lavoro che ci aspetteremmo come risultato del “combinato disposto” di tali premesse con il mood complessivo degli ultimi lavori di Wetton in compagnia di Asia ed Icon. Ma non del tutto.
Tanto per cominciare, infatti, “Raised” ha un taglio in linea di massima più duro e rock’n’roll rispetto al languido sentimentalismo di molte tracce degli Icon (il progetto condiviso con Geoff Downes) e degli ultimi Asia. Non solo: anche l’attitudine prog, mai abbandonata del tutto da Wetton, ma certamente compressa e trattenuta tra paletti pop (come Asia insegnano), qui riemerge in maniera più netta se non prepotente, forse grazie alle guest-star, produttore compreso,  raccolte intorno a John, e va a riecheggiare soprattutto gli U.K. (la band formata da Wetton tra l’abbandono dei King Crimson e la nascita degli Asia) ma pure il suono progressivo aggiornato di certe bands contemporanee del genere.

La qualità del full-length non viene percepita dall’ascoltatore al primo approccio: “Raised in Captivity” cresce con gli ascolti successivi, rivelando via via le raffinatezze contenute nei singoli brani, dal piglio differenziato anche a seconda dell’ospite presente.
Si parte con “Lost For Words”, ed in qualità d’axeman ecco spuntare qui Steve Morse (Deep Purple). Ci troviamo dunque alle prese con uno dei brani più duri della raccolta, grazie ad una fumigante miscela hard/prog/pop in cui la voce di Wetton deve assumere una grinta diversa rispetto al languore dolente che caratterizza i suoi momenti più melodici.
Molto spessa, consistente ed incalzante la trama sonora della title-track, dove gli echi del retaggio del Re Cresimi di cui era ed è leader incontrastato il chitarrista Robert Fripp – qui ad offrire inconfondibili pennellate “prog-ma-non-troppo” – si stagliano sul tessuto ritmico fondato dal basso da applausi di Wetton.
“Goodbye Elsinore” si riporta a più consuete atmosfere da ballata “alla John Wetton”, marziale, teatrale, solenne ed evocativa nel chorus e speziata d’influenze folk. Qui è Steve Hackett, celebrato ex chitarrista dei migliori Genesis, a rendere particolarmente sapide le parti di chitarra.

Nella successiva “The Last Night Of My Life”, invece, l’ascia è imbracciata dal chitarrista jazz-rock australiano Alex Machacek, e l’alleanza/competizione tra sei corde e quattro corde torna a farci percorrere percorsi elaborati e sofisticati tra prog non convenzionale e fusion, pur in un contesto, sia chiaro, mai troppo “brodoso” e dispersivo.
“We Stay Together”, altresì, sterza ancora verso sonorità più semplici e legate alla “poetica” di Icon ed Asia: si apre in chiave sinfonica e pomp, per poi snodarsi in un midtempo arioso e melodico.
La tensione s’impenna nuovamente con “The Human Condition”, tesa, incalzante ed un po’ onirica, grazie alle tastiere dello Yes-man Tony Kaye, il quale torna qualche traccia dopo in “Don’t Misunderstand Me”, ballata evocativa e talvolta melensa che è invece portatrice del tipico marchio di fabbrica del Wetton più introspettivo.
Altrettanto fanno pure “Steffi’s Ring”, con l’asiatico Geoff Downes ed un’aura nuovamente imparentata con il folk, e “The Devil And The Opera House”, nella quale fa la differenza il delizioso violino di Eddie Jobson, partner di Wetton negli U.K. (per molti intenditori l’ultima grande band del primo prog).
Laddove (“New Star Rising”) è invece Mick Box degli Uriah Heep a prestare la propria opera sulla sei corde, l’atmosfera è naturalmente frizzante e rock’n’roll, mentre la voce di Anneke Van Giersbergen in “Mighty Rivers” ci avvolge ieratica, dolente e suggestiva in una sorta di folk-prog che rimanda ai momenti più atmosferici (per qualcuno più tediosi) del repertorio del progetto Icon.

“Raised In Captivity” rappresenta, dunque, un album d’ottima caratura e caratterizzato da una certa intenzionale varietà d’atmosfere, quasi a voler omaggiare, come si diceva più sopra, i vari passaggi che hanno caratterizzato la vita artistica del suo autore (peraltro ripercorsi attraverso una produzione che riesce a non renderli datati).
Forse sarebbe risultato ancora più a fuoco se Wetton avesse assecondato del tutto l’attitudine più dura, tesa e progressiva che lo percorre per la maggior parte delle tracce, inserendo qualche ballata in meno (sebbene i brani lenti e malinconici rappresentino, negli ultimi tempi, un trademark inconfondibile del cantante/bassista britannico).

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Tracklist:

1. Lost For Words (featuring Steve Morse)
2. Raised In Captivity (featuring Robert Fripp)
3. Goodbye Elsinore (featuring Steve Hackett)
4. The Last Night Of My Life (featuring Alex Machacek)
5. We Stay Together (bonus track)
6. The Human Condition (featuring Tony Kaye)
7. Steffi’s Ring (featuring Geoff Downes)
8. The Devil And The Opera House (featuring Eddie Jobson)
9. New Star Rising (featuring Mick Box)
10. Don’t Misunderstand Me (featuring Tony Kaye)
11. Mighty Rivers (featuring Anneke Van Giersbergen)
 
Line Up:

John Wetton: voce, basso, chitarra acustica, tastiere
Billy Sherwood: tutti gli strumenti salvo come annotato nella track list

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