Recensione: Ram It Down

Di Deathrider - 30 Marzo 2002 - 0:00
Ram It Down
Band: Judas Priest
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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88

La senilità non fa un baffo ai Judas Priest, veri e propri nonnetti terribili del metal, che con RAM IT DOWN tornano a calcare rabbiosamente le scene spazzando via tutti i dubbi che aveva sollevato il loro precedente lavoro di studio. E lo fanno con la loro classe proverbiale e con quattro armi decisive: 1) una granitica sezione ritmica che crea ben nove nuove canzoni dannatamente metal e quasi in grado di competere con DEFENDERS OF THE FAITH; 2) un songwriting old style ma sempre di primissima qualità; 3) un notevole miglioramento tecnico da parte del collettivo; 4) una batteria più presente che in passato (con un Dave Holland in grandissima forma che lascia un ottimo ricordo ai fans, visto che è al suo ultimo album).

Ma RAM IT DOWN è questo e altro, a partire dallo stupendo artwork di copertina ad opera di Mark Wilkinson, o alla produzione decisamente più moderna che pone in primo piano le chitarre senza togliere nulla al già citato drumming. L’urlaccio di Rob introduce una stupenda title track, che segna le coordinate su cui poi si muove tutto l’album, una perfetta miscela tra vecchie e nuove sonorità, tra passato e futuro. Tipton e Downing poi si assumono a veri e propri guitar heroes; gli scettici ascoltino i due solos di HEAVY METAL (prima di una trilogia autocelebrativa che comprende anche I’ M A ROCKER, MONSTERS OF ROCK).
Ancora una volta è immancabile la cover, e che cover! Vi ricordate del rock ‘n’ roll di JHONNY B. GOODE? Ebbene, i Priest per l’occasione la rivestono di un nuovo arrangiamento, che risulta addirittura per alcuni versi più affascinante rispetto all’originale grazie a quell’alone metallico che dona al pezzo nuova freschezza e pesantezza.
Ma la song più riuscita dell’ album è a mio giudizio la fantascientifica BLOOD RED SKIES, in cui l’ugola di Rob raggiunge note altissime, ponendosi ancora una volta una spanna sopra rispetto agli altri metal singer. Risuona invece da oscure profondità l’imponente MONSTERS OF ROCK, dotata di un cantato quasi sofferto ma di grande pathos. Infine, vi anticipo altre due songs: la poderosa HARD AS IRON (il cui assolo verrà riciclato in una futura ONE SHOT A GLORY) e la stupenda LOVE YOU TO DEATH (con uno stupendo finale in fade che vede Rob duellare con la chitarra !!!).

Insomma, se RAM IT DOWN non è un capolavoro, poco ci manca, per un classico veramente da collezione. Ma la stagione d’oro dei Priest deve ancora venire: un certo PAINKILLER si profila minaccioso all’orizzonte…

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