Recensione: Rashomon
Ibaraki è un nome che non è del tutto nuovo nel panorama della musica metal: si tratta di un progetto decennale di Matthew Kiichi Heafy, frontman dei Trivium, che ha subito diversi rallentamenti a causa dei suoi numerosi impegni musicali e nel sociale – con le sue organizzazioni no profit “Stack up” e “Metal and honey foundation”, di cui è presidente con la moglie.
Per comprendere meglio quest’opera, bisogna partire al principio, ovvero da quando Matthew è nato, ad Iwakuni, in un ospedale militare, da padre statunitense (ex Marine) e madre giapponese; successivamente si trasferirà in Florida. Un lungo viaggio, un’esperienza, una ricerca delle proprie origini attraverso la musica: i titoli delle canzoni, sono giapponesi, sebbene il testo sia in inglese; e il nome scelto per questo percorso, Ibaraki, altro non è che una nipponica apologia del black metal: difatti, il nome della band è ispirato ad un demone della tradizione feudale del paese del Sol Levante. Anche il nome dell’album è un riferimento alla sua cultura d’origine, difatti il Rashomon, era la porta meridionale della città di Kyoto, che, a partire dal XII secolo, iniziò ad andare in rovina e a deporvi, nelle prossimità, corpi privi di sepoltura e bambini indesiderati, e di li iniziò a diffondersi la credenza secondo la quale anche i Demoni avevano fatto di quel luogo la loro fissa dimora; ben presto quel luogo divenne simbolo della rovina fisica e spirituale (concetti molto chiari al black metal).
E anche l’artwork non lascia spazio a dubbi o interpretazioni: si tratta di un’immagine che richiama gli Oni, ovvero dei demoni della cultura del Sol Levante, dai lineamenti piuttosto arrabbiati e lunghi denti affilati; una immagine in bianco e nero, mentre, in rosso, come se fosse stato scritto col sangue, il nome della band.
Dietro questo disco, c’è un grande lavoro, e un’idea che ha avuto una lunga fase di gestazione, e che poi è stata stravolta da un’amicizia, quella con Ihsahn, che ne ha minato le basi; effettivamente, il suo apporto in fase di produzione si percepisce in alcune sonorità, che lo avvicinano ad un’altra collaborazione del leader degli Emperor, ovvero i Leprous: in alcuni passaggi sembra di riascoltare “Pitfalls”. E va detto, la costruzione di Rashomon è davvero articolata, oltre ai classici strumenti abbiamo archi e armonica a bocca. Il risultato, però, è un meraviglioso disco dalle numerose contaminazioni, dal folk al prog, uniti – e non potrebbe essere altrimenti – dal black metal. Proprio lo spirito innovativo e pionieristico di questa opera, lo allontana dal sentiero black e lo ricolloca in quel meraviglioso quanto utile contenitore che è l’avantgarde.
Azzeccatissima la scelta di iniziare l’album con una intro (Hakanaki Hitsuzen) e chiuderlo con una outro (Kaizoku) dalle sonorità molto affini: questo escamotage artistico dà una dimensione circolare, come se si volesse creare un loop infinito in un mondo, quello di Rashomon, che assume connotati tanto diabolici quanto onirici ed introspettivi. Ogni singola canzone che compone questo straordinario lavoro, ha una struttura lineare ed omogenea; il mood duro e oscuro, viene sempre spezzato da una sezione prog, che esalta le qualità tecniche dei musicisti coinvolti in questo progetto: l’unica eccezione è costituita da Jigoku Dayu: un brano che ci delizia con la capacità di Heafy alla sei corde e che viene interrotta da un ponte violento. I cambi di tempo e di linee vocali (facile trovare alcune similitudini con Serj Tankian dei System Of A Down) all’interno della stessa canzone, rendono questo album sicuramente vivo dal primo fino all’ultimo minuto, accompagnando l’ascoltatore in un mondo tanto fantastico quanto schizofrenico, ma di indubbio valore artistico, accresciuto dalle preziose special guests: già, perché Heafy ha potuto contare sulla collaborazione di Ihsahn e Nergal, artisti che non hanno bisogno di presentazioni. In modo particolare Ihsahn, che appare in Tamashi, Susanoo No Mikoto e Ronin, ha un importante ruolo nella fase di produzione. Akumu è il momento più oscuro e profondo di Rashomon, e coincide con la collaborazione con Nergal. Il brano che riassume meglio la filosofia di Ibaraki, però, è Kagotsuchi: dolce, malinconica, violenta, è un sali e scendi di emozioni e cambi di tempo.
Rashomon non è un album ma un’esperienza musicale attraverso generi, suoni e ritmiche contrastanti talvolta diametralmente opposte, ma sapientemente amalgamati, un tentativo di panmusicalismo su pentagramma, che sarà particolarmente gradito a chi ama gli Emperor quanto i Leprous – perché questo viaggio è raccontato con la forza del black metal unita ad elementi folk– ma soprattutto a chi non ha particolari limiti.
Un lavoro coraggioso, e ben riuscito.