Recensione: Raven Kings

Di Stefano Burini - 8 Dicembre 2014 - 0:01
Raven Kings
Band: Engel
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2014
Nazione:
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72

Dopo il pasticciato (e decisamente poco longevo) “Blood Of Saints”, peraltro successore di due album certamente non irrinunciabili quali “Absolute Design” e “Threnody”, l’hype per una nuova uscita targata Engel non era di certo alle stelle. Eppure, contro ogni pronostico (e a dispetto di una copertina quantomeno discutibile) gli svedesi riescono, con il nuovo “Raven Kings”, a stupirci dando alla luce il loro disco – ad ora – più maturo e completo.

Intendiamoci, la percentuale di zarrìa è parecchio al di sopra dei livelli normalmente tollerati dall’ascoltatore più tradizionalista e nemmeno il genere proposto – sempre a mezza via tra thrash, melodic death e metalcore si discosta poi più di tanto da quanto ascoltato nei precedenti capitoli da studio. Ciò nondimeno le nuove canzoni, con giusto un paio di eccezioni, trovano un equilibrio fino ad ora praticamente sconosciuto alla band di Niclas Engelin, riuscendo a risultare nel contempo asciutte, divertenti e curate.

Messi un po’ da parte i forzosi inserti elettro/danzerecci, gli Engel paiono infatti riuscire a concentrarsi meglio sulla forma canzone e sulla ricerca di melodie realmente efficaci, dando peraltro sfogo ad un’indole finalmente più cattiva. e tagliente; la restante parte del merito va, tuttavia, riconosciuta alla new entry Michael Sehlin, chiamato a fare le veci del dimissionario Magnus Klavborn e, sopresa nella sorpresa, ancor più adatto al ruolo di quanto non fosse il suo predecessore, da sempre considerato come l’asso nella manica degli svedesi. La voce di Sehlin è, infatti, più potente, abrasiva e versatile di quella di Klavborn e anche il suo maggior gusto melodico – in più d’un’occasione non lontano da certe soluzioni tipiche del grande Bjorn Strid – accresce in maniera esponenziale il valore dei nuovi brani.

Se la partenza di “Raven Kings” (in maniera curiosamente simile a quanto sentito su “Siren Charms”) non è delle migliori, con le al più discrete “Salvation” e “Your Shadow Haunts You” ad aprire in maniera agrodolce, è con le successive “Denial” e “Fading Light” che si incomincia a fare sul serio. Il tipico guitar work à la In Flames si intreccia con soluzioni vocali più vicine ai Soilwork e l’ottimo risultato inizia a far salire le pulsazioni dell’ascoltatore, definitivamente steso dalla superba “My Dark Path”, nella quale Sehlin mette in bella mostra tutto il proprio potenziale.

L’acustica “I Am The Answer” fa da spartiacque tra le due metà dell’album ma va registrato che l’idea è forse migliore dell’effettiva realizzazione; pochi istanti di pausa, ad ogni modo, e tocca alla groovy “When The Earth Burns” tornare a pestare duro su alti livelli. Altro giro, altra potenziale hit: “End Of Days” è infatti veloce, sbarazzina e quasi ballabile nel suo incedere; davvero irresistibile, al pari di “Broken Pieces”, vagamente math/djent e valorizzata dall’ennesima prova di valore assoluto al microfono. Tra di esse si frappone “Sanctuary”, invero più che buona ma destinata a fare la figura dell’anello debole in mezzo alle due top track in scaletta.

Chiude, purtroppo, in calando la brutta “Hollow Soul”: praticamente un manifesto del peggior metallo da balera anni 2010, del tutto fuori contesto con il suo arrangiamento elettronico e i cori plasticosi, all’interno di un album (per fortuna) globalmente più tosto e concreto.

A parte un paio di episodi, tra le più piacevoli (e inaspettate) sorprese del 2014.

Stefano Burini

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