Recensione: Ravenhead
Domanda oziosa, forse inutile, ma poniamocela ugualmente: in ambito power metal qual è l’erede della linea ideale che cronologicamente ha visto susseguirsi senza soluzione di continuità band come Helloween, Angra e Stratovarius, per poi finire con i Sonata Arctica al volgere del nuovo secolo?
Se le zucche d’Amburgo, infatti, ideano il genere nella seconda metà degli anni Ottanta, i brasiliani se ne fanno continuatori nei primi anni Novanta, subito seguiti dagli Stratovarius (con Kotipelto alla voce), che condividono la nazionalità finnica con i più giovani Sonata Arctica, i quali stupirono nel 1999 con Ecliptica. I gruppi appena citati rappresentano il meglio del power metal mondiale e testimoniano la floridezza di cui godette tale modo d’intendere il metal prima del declino fisiologico di queste sonorità “ipervitaminiche”.
In tempi più recenti, invero, poche realtà musicali vengono alla mente tali da poter figurare nel prosieguo di questa infilata di grandi band, tanto più che gli stessi alfieri della scuola tedesca (Helloween, Gamma Ray, Blind Guardian) continuano a proporre buona musica e stare al loro passo è cosa difficile per band emergenti. Affidarsi a una sorta di manierismo post-novecentesco non sembra essere la strada migliore per dare nuova linfa al genere, dunque bisogna accontentarsi spesso di band derivative, che a volte riescono, d’altra parte, a stupire.
Questo è il caso degli Orden Ogan, combo attivo da quasi un ventennio (ma con solo cinque studio album all’attivo), che ha fatto sperare di essere l’erede tanto atteso, dopo la pubblicazione dell’ottimo Easton Hope nel 2010, punto d’arrivo di una carriera sempre in ascesa.
Con Ravenhead l’ottimismo va, però, ridimensionato. Appare evidente, infatti, la buona volontà del gruppo tedesco, a fronte, tuttavia, di un’incapacità di reinventarsi, proponendo soluzioni meno scontate per quanto riguarda un sound ormai prevedibilissimo. Il nuovo platter è meno riuscito rispetto anche al precedente To The End, lo si subodora già intuitivamente guardando l’artwork, a cura sempre di Andreas Marschall, il quale questa volta non regala una copertina memorabile, tutt’al più degna di un disco dei Grave Digger più orrifici.
A difesa del combo tedesco, va detto che il power metal fatica a esprimere qualcosa di nuovo, ma gruppi come Rhapsody, Nightwish ed Epica hanno dimostrato che l’ibridazione del genere del tremolo picking con orchestrazioni epiche può rivelarsi un connubio fruttuoso. Gli Orden Ogan hanno seguito tale direzione di rinnovamento, puntando su questo binomio, ma mantenendo una propria specificità, laddove il lato pomposo e sinfonico del loro sound non inficia il comparto metal (o, comunque, meno rispetto agli ultimi Blind Guardian), il drumwork non lesina finezze in velocità, e la voce di Sebastian Levermann graffia, senza scimmiottare il mostro sacro Kürsch o puntare su un growl che sarebbe fuori luogo (non stiamo parlando dei canadesi Crimson Shadows!).
Una solida identità sonora a volte, tuttavia, non basta a creare un capolavoro… Veniamo, dunque, alla tracklist e troviamo pregi e difetti di Ravenhead..
Dopo un intro suggestivo, da colonna sonora videoludica, cantato a bocca chiusa, la titletrack è terremotante e su livelli meritori. Ritmo serrato, incedere baldo e ritornello da manuale: «Behind the gates of Ravenhead / Halls of evil, dreams of dread / Only the touch of the dead / Waits on the steps of Ravenhead / Waits on the steps of Ravenhead». Se l’album continuasse su questa linea d’onda si potrebbe parlare di un ottimo disco e la seguente “F.E.V.E.R” illude in tal senso, essendo un’altra hit song da pelle d’oca, con tanto di lato epico, vicino ai Nightwish, nel finale e cornamuse che rievocano i trascorsi folk della band tedesca.
Da qui in avanti, nondimeno, il disco vive di alti e bassi. “The Lake” attacca cattiva, con sonorità pseudo-djent e i soliti arrangiamenti trascinanti di tastiera (per una volta non a firma di Nils Weise). La doppia cassa, ovviamente, non lascia tregua e accompagna, però, un ritornello esile. Si salva l’assolo, che potrebbe benissimo comparire in un disco degli ultimi Therion, poi tanta noia. Si aggiudica la palma di peggior intro, quello di “Evil Lies in Every Man”, con un filo di voce spezzata a recitare il titolo massimalista della traccia, che si rivela una composizione per niente originale, salvata dagl’inserti acustici di chitarra a metà brano e relativi rimandi ai bardi di Krefeld.
Si ritorna a sorridere con “Here at the End of the World”, altra killer song che ricorda i Fairyland, con un ottimo stacco thrash metal al centro: così dovrebbero sempre suonare gli Orden Ogan. Inizio fatato per “A Reason to Give”, ottima ballad tra folk e power: siamo di fronte a un sound solare con venature opethiane, quasi si stesse ascoltando un gruppo alter ego degli Equilibrium.
Non colpisce nel segno, invece, “Deaf Among the Blind”, pezzo troppo pomposo e velleitario, con annesso battere d’incudine e ritmiche heavy. Ex abrupto le atmosfere s’incupiscono e i primi secondi di “Sorrow Is Your Tale” presentano un soundscape oscuro con cornamuse e organo dimesso. Nel prosieguo la canzone, per certe linee vocali catchy, ricorda i Theocracy; l’assolo, invece, i migliori Sonata Arctica.
“In Grief and Chains” è l’intro, à la Masterplan (con aggiunte stoner e delirio batteristico), della conclusiva “Too Soon”, che muove i primi passi in pianissimo e con linee vocali ariose, per poi continuare in un lungo crescendo. Un finale degno degli Hammerfall, di certo lontano dalla magnificenza dell’ultima grande parata dei Blind Guardian, ma comunque soddisfacente.
Per concludere, siamo di fronte a un album fin troppo coeso e poco vario. Si salvano brani come la titletrack, “F.E.V.E.R”, “Here at the End of the World” e la ballata “A Reason to Give”, per il resto si tratta di musica discreta, ma troppo autoindulgente. La produzione, curata dallo stesso Levermann risulta troppo impersonale e nella sua pulizia minuziosa disperde il furore musicale dei “gemelli tedeschi dei Sabaton” (vedasi armature on stage). Spiace ammetterlo, ma il vero erede dei grandi che furono è ancora da trovare.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)