Recensione: Razorblade god
Se devo dire tutta la verità, non sono mai stato un fan sfegatato dei Drakkar, anzi, in passato mi è capitato più volte di pensare come mai una band come quella in questione, con all’attivo due album a dir poco mediocri, riuscisse a catalizzare tanta attenzione e a far parlare di se su molti magazine di settore, giuro che più volte sono stato assalito da crisi mistiche del tipo ”o non ho mai capito un cazzo io, oppure…….” Mah capita a volte nella vita che uno prima o poi debba ricredersi, e l’uscita nei negozi di “Razorblade god”, terzo capitolo della saga Drakkar, mi ha indotto a tornare sui miei passi. Ma come mai questo ripensamento, direte voi? Beh, il motivo principale, và sicuramente ricondotto allo stravolgimento della vecchia line up con l’inserimento in pianta stabile di tre nuovi membri che, soprattutto per quel che concerne il cambio di vocalist, permettono alla band, non solo di esplorare nuovi orizzonti sonori prima preclusi, ma anche, e soprattutto, di compiere quel salto di qualità da più parti auspicato.
E si, anche se il songwriting del combo è sempre di totale appannaggio del chitarrista Dario Beretta, qui anche nelle vesti di produttore, è innegabile che i nuovi arrivati hanno portato una spruzzata d’energia pura, tanto che in molte occasioni mi è parso di ascoltare un’altra band. Che il brutto anatroccolo si sia finalmente trasformato in uno splendido cigno?
Beh, credo proprio di si, perché è innegabile non ammettere che questa volta la nave vichinga viaggia con il vento in poppa sospinta da una bolina che le permette di salpare verso territori sonori a lei più congeniali. Da quello che mi pare di capire ascoltando le dieci tracks di cui l’album si compone, il nuovo corso intrapreso dai nostri, porta anche ad una parziale virata sonora, così se in passato i cinque parevano ispirarsi al metal tout court di bands come Grave Digger e Running Wild soprattutto, il sound su cui “Razorblade god” pare poggiare le sue basi, risulta molto più avvincente nonchè articolato. Infatti su brani della caratura della title track o dell’esplosiva “Man machine”, assieme ad una parte fortemente symphonic/power metal è possibile riscontrare qualche influenza riconducibile al thrash metal bay area, soprattutto per quel che riguarda il suono della chitarra, anche se è bene ribadire che la componente melodica resta sempre l’ossatura di cui si compongono tutte le tracks di questo nuovo album.
Dunque una band che sa dosare sapientemente potenza e melodia, insomma come diceva il grande Celentano “Un pugno in una carezza”, ecco le caratteristiche che si possono riscontrare su questo nuovo platter che più di una volta è riuscito a stupirmi, ascoltate la quasi progressiva “Witches dance” di sicuro l’apice qualitativo dell’intero lavoro, o la tellurica “The next generation” (anche se quel piano finale ci stà come i cavoli a merenda, NdBeppe), o la stupefacente cover di “Kingdom of madness” dall’omonimo album dei Magnum targato 1978, e capirete dove questa band può arrivare.
Concludendo, vorrei che nessuno commettesse l’errore grossolano di accantonare la band per le sue passate produzioni, è sempre meglio ascoltare che sparare sentenze a casaccio I Drakkar sono rinati, tanto che posso ammettere che “Razoeblade god” è come se fosse il loro primo vero album, con questo, quello che voglio dire non lo so, ma i fatti mi cosano perché i Drakkar badano ai fatti e non alle spugnette, e chi vuole capire ha capito!!!!!!