Recensione: Realm Of Chaos (Slaves To Darkness)
“…On countless worlds the earth shakes as the forces of Chaos
strive to gain control. Whilst they unleash their devastating
weaponry upon their foes there is no time for peace
only Eternal War…”
Iconografia: una parola legata a doppio filo con l’immaginario musicale.
I gruppi storici e la loro musica sono spesso rappresentati da una simbologia che ne riassume il carattere, i temi e il suono. Che siano i barbari nerboruti a là Conan dei Manowar o Eddie lo zombie degli Iron Maiden, la storia non cambia.
E vale lo stesso per gli inglesi Bolt Thrower che, da grandi appassionati dei giochi da tavolo Games Workshop, hanno voluto unire il proprio nome al fantastico mondo di questa ditta, privilegiando gli aspetti più guerreschi e sanguinosi.
Questo “proficuo” rapporto ha inizio e si consolida dal secondo album, il qui presente “Realm Of Chaos” (sottotitolato “Slaves To Darkness”). “Realm Of Chaos” è uno dei primi esempi di death metal con influenze grindcore, nonché uno dei migliori capitoli di una saga che i Bolt Thrower hanno portato avanti con coerenza e con una buona dose di testardaggine (fino ad oggi).
Tornando all’album, già la copertina riesce ad immergerci nel panorama di morte e distruzione tanto caro ai nostri paladini: il concept fa riferimento alla cover della prima edizione del manuale di Warhammer 40000, celebre gioco ambientato in un futuro decadente, assimilabile ad una versione tecnologica di un medioevo oscuro e terrorizzante, devastato dalle lotte tra razze quali gli essere umani, coalizzati nell’Imperium e organizzati in forze militari (gli Space Marine in primis) e rigide gerarchie, alieni invasori di specie diverse e, soprattutto, i nemici giurati di tutte le forme viventi, i servi degli Dei del Caos, espressione (in questo panorama ludico) del maligno.
Avrete dunque capito come il background di Warhammer si adatti perfettamente all’indole belligerante dei Bolt, che non perdono tempo a scagliarci nella mischia dopo un breve intro, dominato dal suono meccanico di una macchina assassina: mentre strisciamo nei campi di “Eternal War”, la distruzione serpeggia attraverso i suoni terremotanti delle chitarre. Invano, cerchiamo riparo dalla batteria che schianta e travolge senza dare requie nel caos del combattimento. Il fuoco della tecnologia assume le sembienze della distruttiva voce di un cantante posseduto, che perseguita l’uomo cercando di gettarlo in un groviglio di vibrazioni maledette. La flagellazione di “Eternal War” ci trasmette un messaggio inequivocabile: l’esistenza dell’uomo è votata alla violenza, schiava di una guerra che non avrà mai fine. In questa carneficina, tra spari e detonazioni che scuotono l’aria, vaghiamo nel fango della trincea, cercando un barlume di razionalità, là dove non c’è.
Mentre esausti e dilaniati dal dolore arranchiamo in questa follia, la realtà si deforma e comprendiamo che cela un innominabile abominio, attraverso l’Occhio del Terrore, “Through The Eye Of Terror”. L’Occhio del Terrore è la dimensione dell’oscurità, deviata, mutata per sempre dal male assoluto, dagli Dei Oscuri. Una voce cavernosa e distorta ci conduce attraverso le porte di questo inferno, mentre le chitarre ruggiscono un avvertimento e il potere del Caos si abbatte, spietato e rutilante, nel suono senza freni dei tamburi.
Giunti a questo punto, siamo consapevoli della nostra condizione: è un’epoca buia, questa vita. È l’epoca del Millennio Oscuro, il “Dark Millennium”. È una certezza che ci perseguita e ci dilania quanto lo straziante grugnito del frontman. “Sperare in un futuro è utopia” urla beffardo Willets nelle vesti di demone mietitore. Anche la chitarra di “Dark Millennium” testimonia con brutale ferocia e velocità caotica che il mondo è in rovina ed è questo il tributo da pagare: l’uomo è un marine spaziale, un soldato, un ingranaggio della sorte, una fiamma che alimenta la rovina, che rieccheggia nei ritmi contorti, possenti, rutilanti di un basso massacrante e di una doppia cassa, inesorabile mortaio dell’umanità dispersa.
Solleviamo lo sguardo dal nostro riparo e il panorama che si apre è una visione straziante: rovine e macerie è tutto ciò che rimane, così proclama “All That Remains”. Un acre odore satura le membra mentre i corpi si contorcono nell’agonia di un turbine di violenza senza fine, generata dai tamburi impazziti. Una voce brutale, un urlo gutturale si solleva e rabbioso spezza le nostre certezze: “Non puoi illuderti” urla l’araldo del male. È inutile scappare dal nostro destino, mentre braccati fuggiamo dai suoni oppressivi della chitarra. È un mondo di disperazione, il cui dolore risuona gemente nell’agonia delle sei corde.
La voce di Willets domina il frastuono della battaglia come il ringhio di un principe demoniaco. “Devi affrontare la cruda realtà” infierisce la figura da incubo “Devi affrontare tutto questo da solo. Vita o morte che sia”. Proseguendo in questo martirio di guerra e sangue, realtà e delirio si mescolano quando i Bolt Thrower mostrano ciò che pensavi non esistesse, parto di una fantasia malata: il dominio delle anime perdute, il “Lost Souls Domain”. È il luogo della disperazione, ricettacolo di visioni di morte catturate ed evocate dal grugnito disumano del main vox, bieco negromante in questo girone maledetto. È un mondo votato al diletto sadico e morboso, torturato dal ruggito delle note laceranti. È la città dei dannati, è il regno dove si odono le urla e il pianto delle anime tormentate, racchiuse nelle possenti fauci di una musica diabolica, ancella prediletta del nostro fato.
Varchiamo le soglie della reggia del peccato, dove cadiamo nella disperazione, soffrendo dinnanzi a Slaanesh, dio della lussuria. Le chitarre ci strappano l’ultimo barlume di lucidità mentre la nostra vita scivola via. Il rombo del frontman risuona lapidario nelle liriche di “Lost Souls Domain”: “Siete condannati. Lasciate che inzii un nuova, scioccante realtà”.
Questa nuova dimensione non si fa attendere e i Nostri ci mostrano il suo volto più orribile allorchè senti un mormorio disturbante avvicinarsi: ora le vedi, deformi, macilente, le bestie di “Plague Bearer”, trasportate da litanie inquietanti di una chitarra che vibra una condanna a morte. Portano il contagio, infestano il mortale per la gloria del Caos urlando virulente profezie per bocca del nostro Karl. Corrompono il giusto come le chitarre schiacciano nella morsa di un morboso riff rituale, che accompagna un coro di brutale sopraffazione. Al loro tocco senti un fremito e la carne è oramai maledetta dall’insano. Sono gli araldi del dio della decadenza, senza pietà né requie, inesorabili strumenti di una orchestra corrotta. “Disperati” grunisce Willets, l’untore “Il legame del contagio ti ha avvinto, senza scampo”.
Ricadiamo nella pazzia, trascinati dalle vibrazioni disturbanti delle corde di un eterno patibolo preparato da Ward e Thomson, profeti del mutamento. L’unica certezza che rimane è la nostra paura: i nemici che combattiamo sono i divoratori di mondi, i servi del peccato, l’empia marea di eretici chiamata “World Eater”. Stanno per arrivare, ti mette in guardia il cavernoso Willets. La chitarra ringhia in “World Eater”, preannunciando la discesa in un baratro di tenebra e dannazione.
La tensione ci attanaglia allorchè percepiamo la scossa di un plettraggio violento, idrofobo senza posa nè pace. I nemici, strisciano, avanzano con l’inusitata brama di sangue di una bestiale batteria. Un groviglio di corpi si contorce e urla di dolore vengono trasportate dai lamenti di quella chitarra resa folle dalla violenza. Il blast beat è la luce bianca di un bolter assassino che strazia le carni.
“È finita” sentenzia una voce infernale, grottesca che ci assale e ci annienta. I pensieri si mescolano, la ragione si offusca e i suoni si contorcono in un turbine di maligna cacofonia.
Presto scivoliamo in un morboso vortice di pazzia. Ora lo sappiamo: è una parodia, questa nostra esistenza. Il suono della capitolazione finalmente ci raggiunge: quello che ascoltiamo è un martellante tormento che lentamente, con spietata crudeltà, ci corrode, ci fa annegare nel buio soffocante dell’ultima track, “Drowned In Torment”.
Sogniamo per uscire dall’incubo che stiamo vivendo, ce lo dice un grugnito che opprime la mente. Veloci, fuggiamo la tenebra che ci sommerge ma la morte ci sta braccando con il basso opprimente di Jo Bench, maciullando la nostra lucidità attraverso impulsi a raffica della batteria di Andy Whale. È un frastuono che diventa compulsivo come i battiti del nostro cuore, dimora delle nostre paure. Il frontman, imbevuto della furia di Khorne, ci sbeffeggia, sputando liriche di sangue. Le corde fremono in lamenti allucinanti mentre l’agonia ti soffoca come un miasma pestilenziale. Le cicatrici della guerra sono diventate ormai vibrazioni dolorose che ci tormentano. Sono cicatrici indelebili, la voce gutturale non mente.
Stiamo annegando sempre più velocemente. La distruzione innescata ormai ci ha travolto. “Annega per sempre nel mare dell’oscurità” ci condanna all’eterna dannazione la mostruosa voce dell’immondo…
…Bene, ora potete aprire gli occhi e tornare alla nostra realtà.
Terminato questo limbo abissale, più di qualcuno accetterà il macabro regno allestito dai Nostri, preferibilmente armandosi di booklet e con le dovute conoscenze di background. E se ai Bolt Thrower si può imputare un songwriting non ancora completamente maturo (cosa che si concretizzerà con il successivo “Warmaster”), è altrettanto vero che non si può negare l’antemicità di “Realm Of Chaos”.
Sì, perchè se il death metal è così oggi, lo si deve anche a capitoli antesignani come i Nostri “Space Marine” (o famelici Orki, se preferite).
D’altronde, la storia di un genere passa anche attraverso gruppi come questo quartetto di irriducibili guerrafondai. Con buona pace dei detrattori.
Eric Nicodemo
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