Recensione: Reborn from the Ancient Grave
I Dead End, formatisi nel lontano 1988, furono una delle prime band death metal in terra d’Olanda. Contemporanei di realtà quali Gorefest e Asphyx, diedero alla luce due demo e un EP, per poi sciogliersi. Il progetto torna in vita nel 2014, con il solo Alwin Roes dell’originaria line-up.
Il sound proposto è una mescolanza di doom metal con il sopra citato genere della morte, il tutto in una chiave decisamente evocativa e occulta. Idealmente è come se prendessimo Bolt Thrower e Pentacle e li mescolassimo, ripescando anche alle origini dei The Gathering. In questa direzione, vi potremmo anche parlare di gothic, ma nel senso più primordiale del termine. Il sound è scevro da tecnicismi, tutto ruota attorno a degli sviluppi assai lenti, ma non per questo privi di dinamismo, grazie e soprattutto al lavoro inaspettato della chitarra.
Le melodie che soggiacciono nei brani mostrano un tocco eccellente a livello acustico. Dalle armonie si riparte con accelerazioni travolgenti, che pur non raggiungendo velocità ragguardevoli, riescono nello scopo di iniettare adrenalina nell’ascoltatore. Il rintocco cimiteriale di “Reborn from the Ancient Grave” echeggia in una valle arida, in cui il vento muove stancamente polvere, posandosi e colorando un torrente scarno di vita. Le strutture dei brani, e gli sviluppi, ricalcano fedelmente vie già solcate, ma indubbiamente le atmosfere riescono a far la gioia degli appassionati.
La mestizia, semplice e tipicamente gotica, sfuma ogni aspetto del disco, creando una sorta di sulfurea emanazione nei pezzi. Vulcano si carica di odio, silente, pronto a esplodere, avvisandoci con il digrignare della propria rabbia, scosse telluriche che rendono irreale ed elettrica l’aria che respiriamo. Calore, angoscia e poi graffianti riff di chitarra, sono gli ingredienti che s’incastonano nel solido monolite doom dei Dead End.
Tradizione è la parola d’ordine di un project che non vuole inventare nulla di nuovo, e che forse anche per questo ha mantenuto il suo originale moniker, nonostante il passare degli anni e un solo superstite della line-up originale.
Merito agli interpreti per la coerenza mostrata, anche se per poter alzare la testa dal marasma del filone, ci vorrebbe qualcosa in più. Sta a loro capire cosa, e l’unico suggerimento che potremmo dare è di rendere ancor più gotiche le atmosfere del loro prossimo lavoro.
Stefano “Thiess” Santamaria