Recensione: Red Dragon Cartel
C’è molta della grande storia del metal tra le dita e le sei corde di un chitarrista dal nome leggendario come quello di Jake E. Lee.
Protagonista di primo piano per almeno un decennio, il guitar player americano era smarrito alle cronache musicali da tempo immemore, tanto da aver confinato le rimembranze delle grandi collaborazioni con Ronnie James Dio, Badlands e soprattutto Ozzy Osbourne (nome al quale Lee rimarrà gioco forza, legato per tutta la carriera) ad uno sbiadito ricordo di epoche passate.
Di quelle che vengono un po’ malinconicamente rammentate da chi proprio giovanissimo non lo è più, e conserva nella memoria il grande fascino di un periodo dorato per la musica rock.
In effetti, anche per il sottoscritto, leggere di un ritorno in scena di un artista quasi “mitico” ed ormai esiliato in una sorta di limbo temporale come Jake E. Lee, ha assunto il valore di una notevole sorpresa alla quale, inevitabile, si è poi assommata una buona dose di curiosità.
Curiosità non certo legata alle doti tecniche in possesso di Lee – straordinarie per definizione e “contratto” – quanto piuttosto, per la possibile strada intrapresa in termini stilistici dopo un periodo di assenza dagli ambienti rock e metal, lungo quasi quanto ci viene richiesto dallo stato per divenire maggiorenni.
Che ruolo avrà giocato l’esperienza in una nuova avventura del tutto inedita e quanto potrà aver influito l’avvicendarsi di mode e stili differenti, nel songwriting di un nome “classico” della musica heavy metal?
La risposta è racchiusa nel debutto dei Red Dragon Cartel, band nuova di zecca messa in pista da Lee in compagnia del vecchio sodale Ronnie Mancuso (chitarrista e bassista dei Beggars And Thieves) ed è – dato di fatto – un risultato che sconfessa qualsiasi effusione nostalgica, per avventurarsi con piglio ed ardore nel cuore del nuovo millennio.
Rock robusto e moderno è quello costruito da Mancuso e Kane Churko (già collaboratore di eroi contemporanei quali Five Fingers Death Punch e In This Moment) attorno ai riff rocciosi eruttati dalla vulcanica sei corde di Lee, estratti da un archivio personale che i racconti ci riportano come oceanico e sterminato.
Non un disco da vecchie glorie, nulla di vintage o volutamente retrò: le atmosfere che si respirano lungo i dieci brani proposti sono cupe, “chiuse” e martellanti, arricchite da una produzione contemporanea che mette in risalto la profondità dei suoni ed enfatizza il rifferama assassino della sei corde, ampliandone robustezza e potenza.
Che il maestro di una vita, sir Ozzy Osbourne, sia influenza definitiva anche nelle sue ultime manifestazioni discografiche, appare quantomeno conclamato e palese.
Chiedere dell’eccellente “Deceived” – pezzo iniziale del CD – per maggiori informazioni: il vocalist scelto per sostenere il duo Lee/Mancuso in questa nuova avventura – tale D.J Smith – è frontman dalle intonazioni tanto simili a quelle del Madman, da lasciar quasi pensare ad un’apparizione sotto mentite spoglie. Ed il “tiro”, l’aria, lo spirito, sembrano esattamente quelli di una delle produzioni più recenti proprio di Ozzy.
“Deceived” è, tuttavia, un primo episodio un pizzico fuorviante, in virtù di una melodia di base che ancora molto concede alla solarità ed al facile ascolto, per quanto, “metallizzata” sotto una coltre di acciaio.
Già con le successive “Shout It Out” e “Feeder” la piega cambia, per lasciare maggiore preponderanza ad ossessioni quasi industrialoidi ed a ritmi martellanti in cui, raggi di sole e vibrazioni gaudenti sono pallido ricordo. Proprio con “Feeder” (Robin Zander dei Cheap Trick alla voce) poi, passaggio notturno e visionario, la neonata band mette a segno uno dei colpi migliori dell’intero disco, in un brano che non avrebbe affatto sfigurato in “Black Rain” del vecchio Ozzy.
Anche nel concetto di ballad i Red Dragon mostrano attitudini moderniste e slegate da riflessi tradizionali: “Fall From The Sky” è ancora una volta una danza cupa e plumbea, esaltata da un solo scintillante in zona centrale.
Sembrano i Mötley Crüe di Corabi quelli che invece zampillano da “Wasted”, traccia sorretta dalla voce ruvida ed alcolica di Paul Di Anno, corazzata ed opprimente ma decisamente non proprio di rango superiore: un po’ di monotonia nelle armonie ne zavorrano la fruibilità, salvata dall’ennesimo intervento solista della deflagrante chitarra di Lee.
Da ascoltare a volumi tassativamente “intollerabili” è la successiva “Slave”, altro pezzo clou dell’album. Velocissima, totalitaria, arrembante ed affiliatissima, la sei corde del guitar player statunitense assume la scena, scorazzando in ogni dove con un torrente di accordi e riff arroventati. Meno enfasi, ritmi ancora più heavy e suoni grevi circondano quindi la voce aggressiva di Maria Brink (In This Moment) in “Big Mouth”, quello che, al netto di un tema portante solido e roccioso, appare come l’episodio più monotono e meno riuscito del disco.
Si può poi tranquillamente parlare di “omaggio” nell’approccio doomeggiante di “War Machine”: basta sostituire il secondo termine del titolo con “Pigs” (“War Pigs”?), per descrivere e comprendere quanto abbiano rappresentato Black Sabbath e Ozzy per il musicista americano.
Per rivedere un po’ di sole, ancorché con raggi d’acciaio, è necessario attendere le parti finali del cd: “Redeem me”, pezzo eseguito con Sass Jordan al microfono è un ciondolante blues alla Paul Shortino / Rough Cutt, mentre la conclusiva e strumentale “Exquisite Tenderness”, lascia finalmente respirare i padiglioni auricolari con due minuti di solo pianoforte che sembrano quasi giungere come una sorta di balsamo lenitivo dopo tanto sferragliare e picchiar duro.
Inevitabile a questo punto, il rischio di lasciar campo a qualche possibile critica ed a malcelati mugugni.
La mossa di puntare drasticamente su toni modernisti ed aspramente contemporanei è parecchio ardita e non mette al riparo dai dubbi sull’efficacia dell’operazione.
In presenza di un disco dalla qualità assestata sui livelli dell’iniziale “Deceived” non ci sarebbero state remore nel promuovere appieno quest’opera prima dei Red Dragon Cartel, album su cui pesano – in una scaletta nemmeno troppo lunga – un paio di passaggi forieri di qualche sbadiglio ed un’impronta di stampo alternativo-industrialodie che spesso non è affatto sgradita ma che, in alcuni passaggi, concede troppo all’aggressività, penalizzando di molto il piacere d’ascolto.
Tirate le somme, l’operazione può dirsi comunque riuscita con esiti soddisfacenti, in forza di una serie di composizioni che, poggiando sul riffing “totale” di Lee, mandano a referto alcuni pezzi di heavy metal “moderno” decisamente gradevoli ed adrenalinici.
L’ambizioso discorso andrebbe ampliato alla ricerca di un migliore equilibrio tra carichi di violenza e sprazzi melodici, al fine di raggiungere una completezza omogenea ad oggi presente solo a tratti.
Siamo certi tuttavia, che il fuoco di Jake E. Lee per l’heavy metal, ora finalmente riacceso, non vorrà più celarsi tanto a lungo…
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