Recensione: Red Rock
Chitarrista di talento e dalle numerose collaborazioni, Bill Menchen è un personaggio di tutto rispetto della scena “Cristiana“ – o per meglio dire “White Metal“ – filone che tradizionalmente ha avuto sin dagli albori i principali punti di riferimento e capisaldi assoluti in band di fama e qualità come Stryper e Whitecross.
Menchen, nuova ed omonima idea del guitar player (già passato tra le fila di Titanic e Seventh Power) è il classico side project estemporaneo capace di esibire credenziali di notevole interesse, dal sicuro fascino del genere abbracciato, sino ad arrivare ai nomi dei soggetti coinvolti, musicisti con pedigree d’alto lignaggio e di valore indiscutibile.
In origine ideata per essere band unicamente strumentale e solo in un secondo tempo evolutasi in canonico combo a “quattro”, la formazione comprende – oltre al leader e fondatore, alle chitarre – anche i volti noti e celebri di Robert Sweet alla batteria (guarda caso, insieme al fratello Michael, l’artefice delle fortune degli Stryper) e di Tony Franklin al basso (Blue Murder, Quiet Riot, The Firm), raggiunti in seguito dal meno conosciuto Ken Redding al microfono, singer già visto in epoche recenti con gli His Witness.
Doti strumentali, esperienza, tematiche di spessore e fascino assicurato dunque. Elementi che, qualora amalgamati e filtrati attraverso abilità di songwriting ottimali, capaci di mettere in pista una serie di tracce dal profilo accattivante e piacevole, avrebbero di certo fornito nuovo materiale per gli amanti del rock “bianco”, senza troppe riserve invogliati dall’ottimo menù all’acquisto di un prodotto dal chiaro sapore “underground”, ma dalle doti garantite.
D’obbligo tuttavia il condizionale. A dispetto delle notevoli credenziali e del buonissimo lavoro profuso in sede di pura perizia tecnico-esecutiva, e contrariamente a quanto riferito da più parti, “Red Rock” presenta, infatti, alcuni aspetti non del tutto convincenti in termini di scorrevolezza e fruibilità, lasciando un po’ a desiderare proprio dal punto di vista della composizione, a volte farraginosa e priva dell’hookline d’impatto e molto più spesso dalla cadenza tediosa e sprovvista di mordente.
Più ancorato a stilemi cari all’US power anni ottanta, il disco lascia comunque trasparire riferimenti hard rock di spessore, offrendo brani di certo non cestinabili ma, a modesto parere del sottoscritto, tutt’altro che dinamici e fluidi, con un grado di comunicatività poco elevato e dallo scarso coinvolgimento.
Complice forse una produzione che conferisce ai pezzi un suono “dispersivo”, privilegiando le parti di batteria, ed una voce di classe, ma in alcuni passaggi declamatoria all’eccesso (vicina allo stile di Eric Clayton dei Savior Machine), la sensazione è quella di trovarsi al cospetto di un platter con molte meno frecce al proprio arco di quanto atteso, realizzato con propositi d’elite, ma alla resa dei conti troppo “pesante” e statico, quasi mai adatto ad accendere la fantasia con situazioni memorabili o passaggi davvero di fattura sopraffina.
L’ascolto di canzoni come “Noon Soon”, “Shifting Sand”, “Time To Ride” e “Snowy Plan” è piuttosto indicativo. Sontuosa prova a livello di strumenti, testi ispirati, messaggi interessanti, ma risultati – fuor di retorica – lontani dall’eccellenza, a causa di una scarsa orecchiabilità e della mancanza di quel “qualcosa in più”, utile e necessario per vincere l’alone di indigesta pesantezza che ne ammanta le cadenze.
Qualcuno, fornendo una definizione asciutta e senza troppi giri di parole, descriverebbe tracce di questo tipo in un modo forse ingeneroso ma significativo. Noiose.
Parere personale certo. Ma l’idea di incompiutezza e la percezione che qualcosa “manchi” in termini di bellezza vera e propria dei brani, è davvero più di un semplice sospetto.
Il consiglio, valido soprattutto quando ci si trova nella condizione di non poter consigliare un prodotto che in molti tendono a definire in termini entusiastici, è naturalmente quello di formulare un’idea propria e personale, attraverso la valutazione di un album dedicato essenzialmente ad appassionati di oscuro ed ermetico heavy anni ottanta dal taglio epico (un po’ alla Manilla Road per capirci), frammisto all’hard rock di Stryper e Dokken che, nonostante i paragoni illustri ed altisonanti, non sembra tuttavia saper regalare particolari gioie e soddisfazioni nemmeno dopo numerosi passaggi.
Ancora una volta insomma, ad ognuno la libertà di decidere.
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Tracklist:
01. Train Crossing
02. Noon Sun
03. A Salt Mine
04. Ashes And Dust
05. Forty
06. Shifting Sand
07. Time To Ride
08. Snowy Plain
09. Wild Wind Blows
Line Up:
Bill Menchen – Chitarre
Ken Redding – Voce
Tony Franklin – Basso
Robert Sweet – Batteria