Recensione: Red Silent Tides

Di Marco Migliorelli - 17 Settembre 2010 - 0:00
Red Silent Tides
Band: Elvenking
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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82

Una decade. Questa la coltre di tempo che come un mantello, avviluppa la musica degli Elvenking. Una marea silenziosa che sale e si abbandona secondo l’estro di una luna volubile e imprevedibile, capace di smuovere le note in onde dalla direzione non sempre indovinabile.

L’inatteso. Questo è il messaggio contenuto nella bottiglia di questo sesto studio album che gli Elvenking stappano a coronamento di dieci anni d’attività.

L’inatteso, imploso nella sinonimia più vasta. The Scythe restava fedele ad una ben definita atmosfera sospesa fra l’irrinunciabilità del sogno e l’esplorazione della morte. Mentre al contempo con la sua falce scindeva ben più che simbolicamente, il passato dal futuro musicale del gruppo. Un periodo dal sound compatto come quello di Heathenreel, Wyrd e the Winter wake ha ceduto il passo all’attualità di un presente più mobile, camaleontico.

Tuttavia gli Elvenking non prediligono mutazioni improvvise e roboanti. Lasciano che sia il cielo a tuonare, limitandosi a tradurre in musica il lascito di questi accadimenti. Anno 2007: The Scythe spazzava via l’equilibrio che nei dischi precedenti assegnava anche al growl un ruolo definito, raccolto in una visione armonica della musica e sbilanciava il tutto in un affondo deciso nella notte. Quel che resta è un’aura di sogno ed è questo per certo l’imperituro che li contraddistingue. Brani lunghi come Dominhate e Romance and Wrath fanno ancora capolino e ritratteggiano nel crepuscolo i contorni forti di composizioni robuste già note agli avventori della prima ora.

Ma nulla di tutto questo poteva arrestare il cambiamento cosciente ormai in atto.

Nemmeno il violino alla cui presupposta invisibilità gridò un coro d’ascolti in quel remoto 2007. Dov’è il violino ormai? Cosa resta ancora di quel poema tratteggiato nel firmamento?

Totentanz:

The mother of pain, the mother of tears
The blackest of tortures, the most cruel of fears
Sweet and dreadful, white queen and witch
Death, Death, Death is a bitch
Death has the answers, your throath has the knife
Death is a savior, life is a whore
Morte, Amore, Death and Love”

E un refolo ancora, nell’anno 2008: Two Tragedy’s Poets. Dov’era allora il violino, qui, dov’è sempre stato. Non manca l’energia, non manca di forza la mano a calar sulle corde, anche quando le spine sono staccate e l’elettricità fa del proprio silenzio un trono per l’acustica.

La giga al tempo di una stagione. La reverie di una lunga stagione musicale stillata in una goccia acustica prima di un nuovo salto.

Ed ora maree che salgono.

Inattese.

Red Silent Tides fa mostra di chi gioca con le ambiguità del proprio volto e da questo gioco non estromette le ombre dei suoi contorni. Un volto che si muove ai margini di un fascio di luce, sublunare e poi dentro e poi fuori e daccapo ma senza veramente nascondersi.

Fuor di metafora ci si destreggia lungo 50 minuti di brani in cui l’ipotesi di un punto di riferimento nell’ascolto si manifesta come l’illusione di un breve momento. L’effetto è spiazzante. Il disco si divincola da quelle stesse mutevoli impressioni ma non le abbandona. Punisce ogni giudizio affrettato e non a torto.

..and dreams are drowning/ in red silent tides”

Il narrato di Dawnmelting crea una bolla di silenziosa attesa. Anche dopo l’attacco congiunto di chitarre e batteria, una sensazione di continuità rispetto a The Scythe pervade l’ascolto. Damnagoras si presenta lasciando cadere la propria voce come un drappo leggero sulla struttura della strofa –non per l’ultima volta-: un sussurro ondulato com’è quello di chi parla a se stesso. Il riverbero cristallino di qualche nota acustica a goccia nel ritornello arioso, ci riporta più indietro, oltre la struttura narrata di The Scythe fino alle aperture più solari di Wyrd, ma è un succedaneo rapido di sensazioni, breve e intenso quanto il pezzo.

Non dura molto: un solo netto di chitarra, il primo del disco, è l’araldo di una novità strutturale. Raphael, seconda chitarra in formazione esordisce in un album da studio. La sua presenza è non poco rilevante. Aydan non cercava un’ombra della propria maestranza ma la possibilità concreta di nuove sinergie. Sinergie ben presenti che come vedremo vanno a connotare il profilo di Red Silent Tides.

Esplode in un insolito coro The last hour e impone già una decisa virata. Impossibile non avvertirla. La nave dell’ascolto beccheggia verso sonorità a tratti rockeggiante. Considerando il sound tipico degli Elvenking, l’immagine è quella di un brano che ammicca all’heavy tradizionale. Catchy fin nelle midolla è appena un assaggio e forse la canzone più facile del disco. Ci si chiede perché non sia stata scelta questa per il singolo.

La bussola inizia a dar segni di scompenso.

I walk in silence/ silence de Mort/ I walk in Silence/ de Mort”

Non restano che le stelle in questo silenzio. Damnagoras è un sussurro dopo l’intro di piano. Partiture d’orchestra riverberano in lontana profondità di suono. Questo l’incipit. Poi la strofa. Permane il piano come una cascata a rallentatore. Intorno a questo spartito la voce si abbassa e si contorce, ambigua fra il sussurro e un cantato lieve. L’introspezione è forte. L’inquietudine sale ma non prende mai il sopravvento, resa non da espedienti tradizionali (…chi ha pensato al growl?), ma da una variazione del cantato nella strofa, che non rinuncia al sogno e alla tenuta di note non claustrofobiche; una variazione che il violino sfuma come nemmeno una tinta nera di rimmel sui più begli occhi.

L’inquietudine è nella contraddizione di quest’atmosfera di sogno.

Ecco allora che Silence de Mort s’estende come una spianata sonora: dal minuto 2.20 fin quasi al termine nella lunga sezione strumentale, le chitarre e la batteria di Zender sortiscono in uno dei duelli più pieni dell’intero disco.

I suoni sono nitidi, le chitarre in rilievo, la voce scivola e s’insinua fra le partiture: al termine di uno dei brani più riusciti e coinvolgenti, Cabal arriva come uno scherzo, un paignion a voler fare i greci di turno. Un brano sicuramente di facile approccio che in molti abbiamo accostato a The divided heart, – forti del paragone istituito fra due singoli, ma che nella sua sezione strumentale, complice il violino e in un finale inedito, rivela come sia un errore liquidarlo come un qualunque singolo di facile presa. La sensazione è accresciuta dal ritornello in cui Damna torna a sospendere la voce fra un affievolirsi in tenuta di nota e una ripresa di tono sempre all’insegna della melodia.

Avversa è la sorte, perchè schiaccia questa canzone fra due fuochi evanescenti e affascinanti. Propizia gli è per lo stesso motivo, perché a far di contraddizione virtù, giunge che due canzoni del calibro di Silence de Mort e Runereader la permeano a poppa e a prua della propria magia.

L’arpeggio introduce il Lettore di Rune. Le dita s’intrecciano fra le corde come a scorrere i caratteri:

Read the lines that no one reads”

Poi la voce solenne a sfumare in un accenno di growl, appena percettibile prima che il doppio pedale vada di rincalzo alla seconda coppia strofica. Break di violino con Zender a tener il tempo e a riprender fiato. Siamo al minuto 3.25 ed è qui che accade l’inatteso. Trasfigurazione di un classico brano Elvenking, di quelli rigorosamente da scaletta. Dalle profondità dell’ascolto in una cavalcata potente di doppio pedale, carica la batteria mentre dietro sale un coro di voci e il violino attraversa come in folle verticale l’intera struttura, fino a che tutto si frange in un breve riff di chitarra. Così per due volte fino alla chiusura. Qual è la peculiarità di questo brano. Innanzi tutto quel coro su doppio pedale suggerisce un’epicità inedita per il sound degli Elvenking e che, devo sottolinearlo, insolitamente mi ha portato a pensare ad un pezzo tirato dei Therion quale Wine of Aluqa. In secondo luogo l’utilizzo di orchestrazioni simili se ben dosato, può sortire una breccia significativa per futuri sviluppi compositivi.

La particolarità di questo brano risalta maggiormente –e forse non a caso-, se a seguirla è Possession. Lo straniamento è forte e tale da mantenere alta l’attenzione. Ancora Zender docilmente insegue l’apertura di violino, ma è con i vocalizzi di Damnagoras che il pezzo prende una direzione tutta sua, girando ancora una volta all’impazzata l’ago della bussola.

L’atmosfera cambia e la sensazione per i più vecchi di noi sarà quella di ritrovarsi, soprattutto durante il break, all’interno di un pezzo degli anni 80. Il solo non indifferente di chitarra insieme al “You carry my heart” del ritornello potrebbe tranquillamente introdurre il pezzo sui titoli di coda di un fantasy ottantiano. A parte la soggettività della sensazione, il suggerimento generale è quello di non liquidare Possession come tipica ballad sentimentale. Le ragioni ci sono e portano a tutta una serie di osservazioni.

La voce di Damnagoras prima di tutto: scriverne sulle note di questo pezzo non è casuale.

Red Silent Tides non contiene più growl e screaming. I vocalizzi si muovono su altri registri. Cercano la sfumatura. Scavano la voce restando nella melodia. Se non consideriamo la parentesi dell’album acustico, comunque più legata ai primi lavori, lo stacco rispetto a The Scythe si avverte nettamente.

Vuoi che lo si consideri espressivo (come nel mio caso), vuoi stridente, che piaccia o no, il carattere alle volte inconfondibilmente tremulo della voce di Damnagoras traccia ancora un percorso che contribuisce a caratterizzare la personalità del disco. La percezione di chi scrive è quella di una voce che evolve la propria espressività su registri ancora diversi: alla voce in pulito sono demandate tutte le sfumature che in altri casi riguardavano growl e screaming. L’esito è un diversificarsi appassionato della voce in grado di valorizzare il lavoro di cesello in fase di composizione strofica.

Si dirà che questa non è una novità assoluta, ma il fatto è che qui siamo fuori del contesto folk tradizionale, in cui pure continuava a muoversi un pezzo come Not my final song.

Ricordo bene le parole di Aydan, quando ribadiva fermamente che agli Elvenking non interessava riproporre a vita una formula folk stereotipa seppur vincente. Red Silent Tides nella sua alternanza d’atmosfere, oscillando fra un’impostazione del sound più tradizionale e incursioni nel territorio del rock melodico, capaci di creare un corto circuito fra la tensione del gotico e la leggerezza acquea del fantastico ottantiano, è la messa in atto di quanto affermato due anni fa.

C’è poi un’altra osservazione di cui Possession è scaturigine. A molti è noto il monicker Avantasia e non pochi sono a conoscenza della svolta verso l’hard rock che Sammet soprattutto in The Scarecrow, ha impostato pur senza abbandonare del tutto il power. Gli Elvenking tentano la stessa sperimentazione –certo senza pensare a Sammet!- e in modo più convincente. Oserei dire più naturale e spontaneo, senza ospiti importanti e guitar heroes, (comunque ben accetti, l’idea è proporre una riflessione NON suggerir polemica).

Mi si chiederà perché. Il motivo è che anche quando in Possession o di più in Those days (ascoltare per credere il ritornello!), o ancora in What you left on me, la vena ottantina prende melodicamente il sopravvento, resta sempre ferma la volontà di non perdere il contatto col proprio sound, -col violino e con tutte quelle mille sfumature di suono che in dieci anni un gruppo va creando-, e quindi di dar vita a qualcosa di più personale. La semplicità non vuole coincidere con uno svuotamento di contenuti.

La successiva Your heroes are dead, dopo un’intro in cui il coro meritava una maggiore sottolineatura in sede di missaggio, riparte con drumming molto vicino a quello della opener fino ad un break di chitarra e violino semplice e caro all’era Winter Wake. Ancora una volta due chitarre danno profondità alla canzone, fino a lanciarsi nuovamente, dopo quasi 3 minuti, in una cavalcata potente cui Zender tiene dietro anche quando nella sospensione del suono ritorna, nella sua brevità soffusa, il coro iniziale. Anche qui la mutazione al terzo minuto che introduce lo stacco strumentale ripropone la felice scorreria di Runereader. Il tutto in appena 4 minuti.

In Red Silent Tides i brani non superano mai i 5 minuti, così che da una parte emerge la maturità di saper condensare buona musica in poco tempo, senza stancare, dall’altra invece –mi perdonino gli Elvenking-, cresce in noi la mancanza di qualche composizione più lunga. Soprattutto dopo le due sopraccitate buone prove su The Scythe e a voler risalire negli anni, dopo la remota A poem for the Firmament.

Manca, manca in questo disco una chiusura maestosa e rabescata. Soprattutto dopo la prova tangibile di un affiatamento fra le chitarre; cosa mai potranno sortire in un brano dalle strutture più complesse ed allungate, cosa mai dopo tanto affiatamento già sulla breve distanza.

Those days. Lo sentite questo ritornello? E il riffing d’accompagnamento in strofa? Heavy melodico. Delle chitarre non parliamo. A chi piacciono gli Scorpions? Le maestranze si dividono. Aydan e Raphael non divorziano fino a che il lettore non va a riposo.

Ma andiamo avanti: quel violino al minuto e quaranta, per quanto breve fa il punto della situazione. Rimescola le carte del pezzo e non lascia dubbi sulla paternità della composizione.

Ritornate alla riflessione su Avantasia…sto pensando a canzoni sammettiane come What kind of love o Carry me over.

Il brano è insidioso ma dopo la perplessità dei primi ascolti -perplessità notevole ed estesa condivisa da chi scrive-, complice il buon missaggio, l’ascolto cresce. La canzone nella sua atipicità prende corpo, rivela un’intensità e uno slancio che permea tutto il lavoro dei friulani.

This nightmare will never end sale in accelerazione fino alla strofa con l’immancabile rabesco d’acustica. Non viene meno l’attenzione per questo tipo di sfumature così che il folk sembra permanere come un’attitudine al dettaglio. L’attitudine propria degli artigiani.

Con What left on me il finale del disco scivola poi in modo ancor più decisivo nell’euritmia di uno sfondo hard’n heavy appassionato. Il tratto più marcato è quello delle parti più melodiose di Two tragedy’s Poets, con la firma degli strumenti elettrici. L’energia non manca –ascoltate Damnagoras in apertura del solo di chitarra-, e ripeto, a prescindere dalla direzione che possono prendere i gusti dei singoli avventori, sono innegabili la volontà e il coraggio di proporre un disco dalle atmosfere inedite rispetto agli episodi passati (insisto su questo elemento che è stato il primo a sfidare e mettere in scacco un manipolo di dubbi iniziali). Soprattutto tenendo presente che molti considereranno in un rapporto di stretta continuità Red Silent Tides e The Scythe.

It’s time to make a choice..”

Canta Damnagoras; mentre foglie turbinano al rintocco dell’undicesima canzone, The play of the leaves, l’ultima e la sensazione è quella di esser ritornati a Fantasia. Fate caso alla storia infinita delle sovraincisioni che vola a fianco di questo e altri episodi del disco. Musicalmente il chorus e quel che abita i suoi dintorni riportano alle atmosfere di Winter Wake. Un’eccessiva ripetitività del ritornello è compensata ancora una volta da una robustezza strumentale che da profondità al brano e ne recupera il senso complessivo.

You’ll better be prepared…”

…ed è tempo anche per noi di fare una scelta. Mentre il doppio pedale chiude accompagnato da un solo a sfumare. Purtroppo!

Red Silent Tides è un disco che alterna il gotico ad un’atmosfera fantasy anni 80; in cui la voce ha scelto di esprimere in pulito tutte le sfumature del cantato, riuscendo pienamente nel suo intento; in cui una base di stile familiare si mescola in modo coraggioso alla melodie del rock e dell’heavy più tradizionali.

Lo straniamento non è lieve né privo di risvolti positivi. Laddove qualche ritornello di troppo poteva essere spezzato da qualche affondo in più nel minutaggio, arrivano le chitarre, forti di solos sempre ispirati e intensi, sostenuti da un’ottima sezione strumentale. Non è poco.

L’idea è liberarsi dall’inganno frequente di aspettative che noi stessi in fondo non sapremmo definire. Arrivare a giudicare un disco dopo almeno aver smascherato l’inganno di questa illusione.

Tralasciando quelli che saranno i verdetti personali, resta innegabile la passione nell’interrogare il proprio sound e perché no, nel tentarsi anche: lusus del raccontare che traspare dietro la serietà dell’impegno. Se è vero che non servono parole e temi altisonanti per brillare, questo disco lo conferma nel più semplice dei modi.

Solo a questo punto avvertiremo quanto davvero pesa l’altro piatto della bilancia: una voce che vince lo spettro della monotonia nella sfida del cantato pulito; un labor limae di violino concreto ed in un paio di punti (indovinate voi quali…), memorabile; una sezione strumentale robusta valorizzata da un ottimo missaggio che l’edera delle chitarre avvolge in un intreccio di solos. Nell’insieme un golfo musicale la cui atmosfera penetra con l’ascolto proprio nel momento in cui confonde e rende incerti.

L’inatteso, imploso nella sinonimia più vasta.

Solo allora la marea sarà abbastanza alta da poter prendere il largo.

Che sia poi di metter l’ali a un folle volo o semplicemente naufragare, poco importa.

Ascoltate.
 

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Tracklist:

  1. Downmelting
  2. The Last Hour
  3. Silence De Mort
  4. The Cabal
  5. Runereader
  6. Possession
  7. Your Heroes Are Dead
  8. Those Days
  9. This Nightmare Will Never End
  10. What’s Left Of Me
  11. The Play Of The Leaves

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