Recensione: Redrumorder
Il primo album dei Phaith dimostra che Cortina d’Ampezzo non è solo una località snob di montagna, dove si suona musica elettronica e si fanno happy hour, ma anche un posto dove il metal può essere pensato e suonato. La band si forma nel 2000 per mano del batterista Costantini, del chitarrista Menardi, del bassista Salvagni e del cantante Mainago. Per alcuni mesi Costantini prova come chitarrista, chiamando dietro le pelli Gaspari, ma l’alchimia non è nell’aria e allora torna a suonare la batteria. Nel 2003 Matteo Magri viene ingaggiato come secondo chitarrista e nel 2007 Menardi lascia la band per fare posto a Gianluca Magri. In questo lasso di tempo, gli ampezzani sono riusciti a togliersi la prima soddisfazione registrando l’Ep “Metaphora” che gli ha permesso di suonare con gli Atrocity e Doro. Poi grazie ad una nuova demo, hanno suonato con Rage, White Skull e Primal Fear. Veramente non male per una band che non aveva ancora sfornato un vero album, che arriverà nel 2011 e che rivoluzionerà il loro suono, rendendolo più pesante.
Si sente fin da subito l’omaggio ai Judas Priest, soprattutto per le parte melodiche e per il modo di confezionare le canzoni. Alcune poi rimandano sia agli Accept, sempre per le melodie, anche se qui mancano quei cori incisivi e quella potenza che rendevano mitiche le canzoni di Udo & Soci, sia agli ultimi Kreator. Mainago poi, non è di sicuro avvicinabile né a Mille Petroza né a Rob Halford, ma lo si può paragonare per molti aspetti a Matt Barlow degli Iced Earth, non avendo però né le sue tonalità basse profonde, né le tonalità più acute. Quello però che non va è la pronuncia inglese: buona, ma non perfetta. La band è brava e tutti si amalgamano alla perfezione, anche se manca quel tocco in più che ti fa venire voglia di ascoltare e riascoltare le canzoni – che, per carità, sono carine pur non avendo niente d’innovativo. L’album è godibile e i quattro di Cortina hanno un loro stile ben preciso e ben identificabile pur perdendosi nel vasto contenitore di band hard/heavy. Parlando delle canzoni dell’album, trovo che nell’insieme tutte si assomiglino più o meno, anche se i vari riff sono diversi uno dall’altro. “Rorschach”, che parte come una ballad, svolta nettamente grazie alla necessaria potenza e all’uso della tastiera, presente anche in “Death Is Pornography”. A mio avviso la band dà il meglio di sè proprio in quel frammento di ballad. “12 Wings” inizia con un apertura molto gothic per poi svoltare grazie ad ottimi riff di tutte e due le chitarre e ad una buona melodia di base. “Another Hurt To Heart” la segnalo solo per essere il singolo e la canzone da battaglia in sede live: non a caso è possibile vedere sul loro sito il video live di questo e altri pezzi. “Morning 2.12” non so se sia la più riuscita, so solo che ha la giusta potenza in grado di coinvolgere, anche se non fa gridare al miracolo. Prenderei di sicuro questa come valida base di partenza per il prossimo album. “Videodrome” e “Deep In The Human Soul” si assomigliano molto e il coro “I’m bleeding my faith is bleeding” di “Videodrome” è da rivedere. Sulla loro pagina c’è scritto che ci sono molte citazioni cinematografiche, ma da buon amante del cinema, ho scovato solo la più palese: “Videodrome” fa riferimento all’omonimo film di Cronenberg. “Blessed In The Pain (Monsoon)” si segnala solo per un pessimo spezzone di growl.
I Phaith sono una band onesta che però rischia di perdersi nel vasto “Oceano Pacifico” dell’hard rock/heavy/power.Quello che ho notato è che le canzoni non hanno uno specifico inquadramento, non sono nè potenti e melodiche, né delle vere e proprie ballads o canzoni più lente, per cui più si ascolta “Redrumorder”, più si ha la sensazione di ascoltare un valido album (con alcuni difetti, certo, per fortuna non dovuti alle registrazioni). Il voto perciò non deve stupirvi, tenendo conto di quelle note positive che potrebbero far sperare bene per il futuro della band, anche perché grossolani difetti non c’è ne sono.
Luca Recordati
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