Recensione: Reflections
Ancora metalcore. Ancora Germania. Che, assieme agli States e al Regno Unito, si dimostra essere patria del genere metal più controverso e discusso degli ultimi anni.
Per esempio, uno dei temi oggetto di critica è l’obbligo formale del moniker diluito su più termini, il quale è rispettato anche in questo caso: Cry My Name. Essendo un’osservazione eminentemente non musicale, meglio discutere di una band nata dieci anni fa, dotata di un solido background tecnico-artistico e, ultimo ma non ultimo, autrice di tre album di cui l’ultimo s’intitola “Reflections”.
Se si dovesse prendere un ensemble su cui disquisire sullo spessore artistico della tipologia musicale di cui trattasi, altro argomento di polemica, i Nostri apparirebbero perfetti sotto tutti i punti di vista. Il loro melodic metalcore non ha nemmeno una nota fuori posto dalla definizione enciclopedica del metalcore stesso, difatti. Il che non significa che si tratti necessariamente di un difetto. Anzi. Può essere visto benissimo come un pregio, al contrario. Come un sicuro metro di paragone per riferirsi con esattezza ai dettami tipici della categoria, insomma.
Hars vocals, chitarre dai toni ribassati e dal riffing derivato dall’hardcore metal, ritornelli melodici di facile presa, cori, ritmo scoppiettante e deciso interrotto dagli stop’n’go dei breakdown. Più o meno tutto quello che occorre per realizzare un ideale disco di metalcore. Il che, ovviamente, è facile a dirsi quanto difficile a farsi. L’obbligo di sottostare a delle regole ferree, difatti, impone a chi suona di concentrarsi sulle canzoni. Con la conseguenza che a uscire fuori non può che essere il talento. Il quale, come si sa, o si ha o non si ha.
I Cry My Name ne hanno. Non in quantità industriali, ma ne hanno. Fattispecie che consente loro di buttare in campo song di qualità più che discreta, come per esempio ‘Changes’ – al contrario del nome, i brani sono intitolati con una sola parola. Oppure ‘Restless’, veemente scorribanda fra le raffiche del vento. Del mare. Chissà perché, il metalcore, soprattutto le sue linee vocali e i relativi cori, rimandano a storie di mare, appunto. I Devil Sold His Soul sono maestri, in ciò, ma quella appena menzionata è una caratteristica abbastanza comune, fra i migliori combo specializzati. E, senza dubbio, il quintetto di Rendsburg rientra in quest’ultimo insieme.
A parte l’attinenza totale allo stile, i Cry My Name sono dotati di un sound adulto, formato in ogni sua parte. Due lustri di attività non sono proprio pochi e l’esperienza si sente tutta.
Si diceva dei pezzi. Pur non essendo presente il capolavoro, tutti i singoli episodi di “Reflections” sono riconducibili alla medesima anima, alla stessa base artistica. L’originalità è assente ma il piacere che si prova a scorrere fra ‘Recover’ e ‘Relentless’ è palpabile, concreto, lampante. Ed è proprio qui, la forza del metalcore: suono duro e granitico accostato a esplosive armonie. Un’antitesi che funziona. Principalmente in questi casi ove, cioè, lo status è quello di professionisti della melodia.
I Cry My Name non apportano nulla di nuovo, alla storia della sottospecie *-core, tuttavia “Reflections” è un full-length assolutamente godibile e degno di essere ascoltato con attenzione e, soprattutto, passione.
Daniele “dani66” D’Adamo