Recensione: Reflections In A Rear View Mirror
Sul finire dell’epoca d’oro del glam e dell’hair metal, gli Eighties, il cantante e chitarrista del Nevada Mark Slaughter, già nei Vinnie Vincent Invasion, fondò la band a sé intitolata: gli Slaughter, appunto, i quali diedero alla luce ad almeno due classici di successo del party rock del tempo, Stick It To You e The Wild Life.
Prima dell’avvento del grunge, che piazza pulita fece, come tutti sanno, del rock duro patinato che aveva imperversato negli anni precedenti, gli Slaughter centrarono pure alcuni hit da alta classifica e da heavy rotation su MTV, come Up All Night e la ballad Fly to the Angels.
Negli anni successivi, caratterizzati da disaffezione del pubblico nei confronti del genere musicale di cui sopra, dal declino della popolarità della band e da tragedie personali, ma pure, successivamente, dall’ improvviso riaccendersi dell’attenzione nei confronti del rock melodico che ha coinvolto molte band di questo genere, gli Slaughter non hanno comunque mancato di esibirsi dal vivo e produrre una manciata di studio album. Il più recente si questi era Back To Reality, che risale all’ormai lontano 1999.
A sorpresa, il 2015 rivede il nome Slaughter riaffacciarsi sul panorama dell’hard rock, questa volta per il rilascio di un lavoro solista per Mark, dal titolo “Reflections In A Rear View Mirror”.
Il full length vede il musicista statunitense indaffarato a trecentosessanta gradi. Tocca a lui, infatti, prendersi cura di tutti gli strumenti, salvo qualche piccola comparsa di ospiti, nonché della produzione (condivisa, però, con il leggendario Michael Wagener alla consolle).
Fin dalle prime note di Away I Go, un rocker lesto e trapassato da staffilanti fendenti chitarristici e voci acute trasfigurate da un impeto travolgente, ci si rende conto che Mark non ha penso un’oncia della sua determinazione e della sua voglia di far festa.
Questa prima impressione è confermata da Never Givin Up, uno spudorato melodic hard rock ottantiano, e da Miss Elainious, in cui grattugiati riff d’ascia ed una martellante sezione ritmica fanno perdonare un tantino di confusione nei suoni.
Pure The Real Thing è puro glam-metal contrassegnato da cori spavaldi, così come Somewhere Isn’t Here, definite da ritornelli sbarazzini e catchy ed elettricità a profusione.
In quanto a grinta e cattiveria sonora, nulla ha da invidiare a certi Skid Row ed agli stessi Slaughter Velcro Jesus, altro rocker tostissimo e guitar-oriented dall’inconsueto finale sinfonico.
Reflections In A Rear View Mirror non è solo metal: Baby Wants è contrassegnata, per esempio, da un alternarsi tra dolci sognanti sprazzi semi acustici e agitate mitragliate, mentre Don’t Turn Away è una ballatona elettrica e dal mood orchestrale. Sugli scudi, qui, anche la voce femminile di Gena Johnson, ed un arrangiamento molto ricco ma che ma in fondo non decolla del tutto.
Deep In Her Heart è un altro, più focalizzato, slow dal sapore orchestrale, mentre In Circle Flight è un evocativo strumentale. Carry Me Back Home, ancora, offre un inconsueto mix di elettricità ed elettronica diluite in salsa country, con la voce un pò affogata dai suoni.
Reflections In A Rear View Mirror, insomma, è un ritorno sulle scene massiccio e carico di determinazione, contraddistinto da riff rocciosi e – talora – Kiss-oriented, che dà il meglio di sé negli uptempo, mentre altrove è affogato dall’immersione in velleità sinfoniche ed orchestrali originali ma, talora, un po’ pesanti.