Recensione: Refusés
“No, fermi, non giudicate il disco dalla copertina! Prendetevi un attimo per leggere la recensione, vi assicuro che ne vale la pena”. Il segreto sta tutto nel cambiare il punto di vista, l’angolo inverso da cui osservare per poi valutare in modo personale e intimistico. Prima, però, concedetemi di grazia un accenno di storia. I Fufluns non sono musicisti imberbi alle prime armi, anzi potremmo quasi definirli un super-gruppo della scena prog italiana (ogni volta che qualcuno mi dice che la musica italiana è inesistente e che non vale nulla fuori dai confini dello stivale, faccio un sorriso beffardo e penso tra me e me “povero stolto”; ma questa è un’altra storia).
La band è composta da Simone Cecchini, cantante de Il Bacio della Medusa che qui si occupa anche di tutte le liriche; Alfio Costa e Marco Freddi (dei Prowlers), entrambi alle prese con le medesime armi della band madre; Guglielmo Mariotti, bassista de La Bocca della Verità e infine Simone Coloretti, chitarrista degli Egoband. Davvero tanta esperienza e tanta classe a disposizione della buona musica. I Fufluns, o meglio l’amicizia tra i nostri, non è qualcosa di recente ma risale a circa 20 anni fa, quando venivano gettate e condivise le prime bozze, anche se ancora a livello embrionale, di una nuova idea musicale e di una collaborazione fruttuosa: magari davanti ad un calice di vino? Fufluns in effetti è il corrispettivo etrusco del dio greco Dioniso, e del dio romano Bacco, quindi il Dio del Vino (così abbiamo anche svelato il significato del nome peculiare della band). Nonostante la lunga amicizia che unisce i membri del gruppo tra Lombardia, Umbria e Toscana, il primo disco esce solamente nel 2016 con il titolo Spaventapasseri. Ed è davvero un ottimo esordio, con tematiche oniriche in cui i Fufluns ci raccontano storie fantastiche ed elegiache, tra tediosi fantocci e indisponenti uccellacci per un progressive di “nuova generazione” davvero di alta classe.
Un paio di mesi fa, dopo una gestazione di ben 5 anni, il combo tricolore pubblica Refusès. Non siamo come per il precedente lavoro al cospetto di un concept, è invece presente un leitmotiv che connette le nove tracce, ovvero la copertina (dai che alla fine della recensione vi piacerà anche quella!). L’artwork infatti rappresenta una parte delle 17 sculture in terracotta, stoffa e tessuto acrilico, realizzate dall’artista bergamasco Beppe Corna (tra l’altro special guest come voice nell’ultimo brano), chiamate appunto Refusés. Queste maschere grottesche racchiuse in quella che può sembrare una sorta di camicia di forza troppo grande, rappresentano gli esclusi, i reietti, gli sconfitti, i dimenticati, gli abusati. Ed è proprio questo con cui i Fufluns voglio chiamare in causa i nostri valori, la nostra sensibilità, la nostra umanità; ci raccontano storie crude, come la carne bruciata, dolenti come le sferzate sulla schiena innocente di un bambino. Ed è dal silenzio di ogni statua di terracotta che si alzano le grida di dolore dei bambini sfruttati nelle miniere di diamanti in Sierra Leone, i desaparecidos cileni scomparsi e dimenticati, le coraggiose e indomite donne combattenti curde, lo scisma cruento nella ex-Iugoslavia, gli omosessuali perseguitati e trucidati in Cecenia, il dramma dei bambini siriani vittime della guerra e della povertà.
Questo è quello che troverete in Refusès, questo è quello che Simone Cecchini nei suoi testi narra e denuncia con spontanea inclemenza, andando a suscitare quella che per l’umanità deve essere un dogma per rivolgere lo sguardo al futuro: la Memoria. Vi starete giustamente chiedendo come sarà la musica. Dimenticatevi le tematiche e i suoni onirici della prima uscita, qui il sound si fa duro e cupo (grazie anche alla chitarra pesante di Coloretti assente in Spaventapasseri), e non lascia spazio né al buonumore, né tantomeno alla serenità: gli accordi in triade maggiore li potete contare sulle dita di una mano.
Ma procediamo come sempre in ordine di tracklist, partendo dall’opener “Sierra Leone”. L’intro dolcissimo e sofferente di pianoforte distende i gangli sonori, ma è effimero perché un tappeto di synth cambia subito la prospettiva. La voce durissima di Cecchini e un groove (sostenuto dalla batteria di Freddi e dall’hammond di Costa) con le loro sferzate analoghe al ritmo delle picconate ci catapultano direttamente nei giacimenti di diamanti dello stato africano menzionato nel titolo. Il sound è duro e tormentato e si apre leggermente nel refrain descrivendo l’antitesi dell’opulenza dei benestanti. Il finale con pianoforte e voce è struggente e scuote il nostro stato d’animo. La seguente “Martirio di un Falegname” racconta la storia italiana relativamente recente di Aldo Bianzino arrestato per aver coltivato per uso personale un paio di piantine di marijuana e poi morto in carcere (non sapremo mai il perché ovviamente). Anche in questo brano la denuncia è densa e urlata, Cecchini più “infuriato” che mai è sorretto da chitarre distorte e un efficace sound elettronico, in un intro detonante che travolge come uno tsunami. Il sound si addolcisce solamente quando la prospettiva si modifica attraverso gli occhi della moglie e del figlio, per andare a rimarcare il dolore di una separazione brutale. Bel brano, in definitiva, che alterna momenti passionali a momenti intimi, rabbia a disperazione, urla di proteste a mutismo rassegnato.
Con la successiva “Iris” restiamo ancora nel nostro Belpaese per denunciare la vicenda di Italia Donati. I Fufluns ci ricordano una storia più datata, siamo infatti nel 1886 e la Donati è un insegnante elementare che esercita in una piccola frazione toscana chiamata Porciano. Il sindaco si invaghisce immediatamente di lei e inizia a tormentare e importunare la nuova arrivata. Italia Donati non cede, rimane integra e incorrotta, ma inizia per lei un calvario di calunnie e maldicenze da parte di tutta la comunità. Viene accusata in ogni modo, persino di aver abortito un figlio illegittimo; lei proclama la sua castità e onestà, ma ormai è stata marchiata a fuoco: anche dopo aver chiesto il trasferimento l’infame pubblico (così lo chiamava) continuava l’opera di diffamazione. Italia Donati muore suicida gettandosi nel fiume Rimaggio e la successiva autopsia dimostrò che morì vergine. La musica è mutevole, inizio acustico con Cecchini che dà la voce al fiume che “liberò” Iris (i Fufluns hanno utilizzato uno pseudonimo ovviamente). Il componimento ha un’aurea bucolica, che suona molto Banco del mutuo soccorso con intrecci vocali e un flauto trasognante che ci accompagnano nella brughiera. Tutto rimane volutamente soffuso e acustico, per permetterci gradatamente di immergerci nella storia.
Cambiamo invece continente con il brano “Desaparecido Italiano” ed il sound si ispessisce di nuovo. L’inizio è più Seventies che mai ed a metà canzone il charango di Cecchini ci fa volare in Cile in un duetto con chitarra classica folk. Un affascinante assolo di Coloretti nel finale ci conduce all’epilogo del pezzo più anni Settanta del disco. Dal Cile con volo intercontinentale ci spostiamo nella odierna Bosnia ed Erzegovina, per ammirare “Il Tuffatore dello Stari Most”. Lo Stari Most è un ponte ottomano simbolo della città di Mostar, distrutto nel 1993 durante la guerra in Bosnia, la cui ricostruzione terminò nel 2004. Il sound questa volta si fa meno duro, prediligendo un ritmo sincopato con sfumature new wave tipiche del primo disco della band. Emergono difatti le ottime linee di basso di Mariotti che soverchiamo la scena come fossero colpi di cannone, mentre la voce di Cecchini perdura nella sua teatralità coinvolgendoci appieno. Musicalmente è leggermente al di sotto dei brani ascoltati sino ad ora, forse perché i Fufluns “ripuliscono” troppo gli strumenti lasciando solo l’essenziale che a tratti restituisce una sensazione di vuoto; i testi rimangono comunque sempre di alto livello. È la volta di “Rosa del Deserto” in cui la voce calda di Cecchini impersona l’oratoria della combattente curda Asia Ramazan Antar (definita dalla stampa “l’Angelina Jolie curda”). Il testo si ispira alla poesia “Io vado, Madre” del poeta curdo Abdullah Goran. Il brano è una bellissima ballata acustica, coinvolgente e avvolgente, di cui vi lascio un estratto del contenuto particolarmente espressivo e pregno per riflettere a occhi chiusi: “Armi made in Italy sono i gioielli che ci dai, insieme a queste vesti insanguinate. Carne da Macello con un ideale in grembo, ma voi mi avete davvero guardato dentro oltre questi occhi o queste labbra? Mi ha freddato il piombo col suo sibilo nel vento, io sono la parola sulle labbra dei poeti”.
Anche la seguente “Blu Oltremare” inizia acustica, dolcissima e particolarmente emozionante. Il blu oltremare è un pigmento ottenuto dai blocchi di lapislazzuli, che per il suo blu intenso spesso nell’antichità veniva utilizzato per affrescare le vesti della Madonna, ed è proprio tra le braccia della Vergine Maria che riposa fra Claudio. La canzone è infatti dedicata a Claudio Canali, voce dei grandi “Biglietto per l’Inferno”, diventato successivamente frate monastico. Tutto il motivo si svolge con una delicatezza incredibile: l’inizio è affidato al mandolino di Mariotti che scemando lascia il posto al mellifluo pianoforte di Costa; il brano cresce progressivamente ma sempre senza strafare o soverchiare l’ascoltatore. Gli ultimi minuti sono invece più aspri, oscuri e fitti, permettendo ai Fufluns di dar sfogo al loro animo prog. La chiusura è relegata ad un bel duetto tra chitarra elettrica e pianoforte. “Pronto, c’è Vladimir?”… No, purtroppo non è uno scherzo telefonico, la successiva “Telefonata a Putin” è una denuncia esplicita contro la persecuzione degli omosessuali in Cecenia. Il 26 Gennaio del 2016, 27 persone sono state prelevate dalle loro abitazioni, senza arresti formali, torturati e uccisi nei gulag solo per il loro orientamento sessuale; i rappresentanti delle autorità locali dichiarano semplicemente che “in Cecenia non ci sono gay!”. La tecnica usata per torturarli si chiama “Zvonok Putinu“, che vuol dire appunto “Telefonata a Putin” e consiste nel far passare scariche elettriche nel corpo del prigioniero attraverso il lobo dell’orecchio. Il brano che contesta questa pratica disumana è un pezzo tiratissimo, in cui la batteria di Costa tiene le redini della cavalcata dove si rincorrono tutti gli strumenti senza tregua.
Ma in buon stile Fufluns ecco che all’improvviso tutto si acquieta, emerge dal tumulto la voce sofferta e straziante di Cecchini a calmare la frenesia musicale e poi riparte nuovamente tutta la band per l’ultima corsa finale. La chiusura del disco è consegnata a “Canto dei Bambini Senza Voce” e stavolta migriamo ad Aleppo in Siria per dare titolo ai bambini caduti o sopravvissuti ai bombardamenti. I Fufluns ci raccontano di bambini, ormai profughi a cui è stata strappata la propria innocenza, non sono più capaci di ridere, giocare, scherzare… e nemmeno di piangere. Colpisce da subito il cantato istrionico di Cecchini che sembra raccontare una fiaba dai toni bellicosi e agghiaccianti, come vuole ogni racconto di guerra e morte. La musica è sinuosa, avvolge e stringe come le spire di un boa, poi ti lascia prendere fiato rallentando e regalando spazio al synth, ma ti incalza nuovamente e ti lascia senza respiro sino alla chiusura, dove la voce di Beppe Corna su un tappeto di chitarra elettrica ed un pianoforte gemente chiude il brano ed il disco.
È arrivato il momento di tirare le somme e lo faremo senza giri di parole. Refusès è un disco di valore assoluto che dovete assolutamente ascoltare, anzi fatelo ascoltare anche ai vostri figli, ai vostri amici, ai vostri amanti perché il coraggio dei Fufluns nell’affrontare temi così attuali e denunciare i soprusi dell’Uomo deve essere di esempio per tutti noi e soprattutto per chi si nasconde dietro l’omertà. Ieri come oggi.
“Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni.”
Martin Luther King