Recensione: Remission
Primo album, a seguito del convincente EP “Lifeblood”, per il fulmine a ciel sereno del metal del nuovo millennio. Il cavallo da tiro dei
Mastodon comincia la sua marcia furibonda con questo “Remission”, un’opera prima –se così la possiamo chiamare- per il sottoscritto già al livello del più celebre e giustamente osannato “Leviathan”.
Brann Dailor, Bill Kelliher, Troy Sanders e Brent Hinds con Remission riescono a chiarire fin da subito cosa significa “Mastodon”: una macchina che spara riff originali a ripetizione dall’inizio alla fine di un brano, il tutto supportato da una base ritmica di calibro bellico e da un cantato collerico decisamente “sporco”, scabro, che scandisce dei testi ispirati ma ridotti all’osso.
Se dobbiamo trovare il punto scricchiolante dei Mastodon però questo è proprio il cantato; personale ma migliorabile, con un’attitudine metal-core un po’ troppo monocorde per il thrash vario e suggestivo che fa il gruppo. Una pecca tuttavia da poco se si considera che ciò che hanno da dire i Mastodon lo dicono le chitarre e il songwriting, di un eclettismo spiazzante.
Il disco: alcuni pezzi assolutamente singolari e altri che ai primi ascolti onestamente si confondono un po’ l’uno con l’altro; cerchiamo di distinguerne i salienti.
Il pezzo di apertura “Crusher Destroyer” sono due minuti di assalto animale in cui sul tappeto di una batteria rullante i nostri sciorinano la proverbiale tempesta di riff thrash, nel bel mezzo della quale un paio di giri puliti, distintamente
southern rock, passano talmente veloci da lasciarti appena il tempo di alzare di colpo la testa e guardarti attorno con aria accigliata, a chiederti cosa sia appena successo di strano.
“March of the fire ants”, subito dopo, rallenta un po’ il ritmo e ci porta nel mezzo di una marcia pesante e granitica
– per quanto le chitarre ultra sporche lo permettono – più ossessiva e meno varia ma sicuramente di atmosfera, con le linee vocali che si allungano ad intonare una litania indemoniata.
Ma è dopo ”Where strides the Behemoth”, tipico (solito) brano Mastodon che ci riporta nelle atmosfere del primo pezzo che, signori e signore, inizia la marcia del
“Workhorse”. Ci accoglie una rapida intro quasi pulita in cui si mettono le cose in chiaro con il riff portante, finché parte la sfuriata di
Troy Sanders che, se fin’ora l’avevo definita “collerica”, ora diventa un’invettiva brutale e malefica che dà fuoco alle polveri del brano.
Sullo sfondo è ben nitido l’incedere del cavallo da lavoro più bizzoso e incazzato che abbiate mai visto, possente ma ritmato, che non cede di un millimetro sotto un insopportabile carico di schitarrate ruvide e rocciose, e che in qualsiasi momento scatta e scarta per strappare i legacci che lo tengono in schiavitù. Una traccia assurgibile a manifesto dell’album e del gruppo.
Dopo la furia sei minuti abbondanti di respiro con “Ol’e Nessie”, piacevole -anche se ci conferma che il vero mestiere dei
Mastodon sono i pezzi veloci e d’impatto più che le ballate -…per ricominciare di nuovo bramosi di casino con
“Burning Man”. Un riff ossessivo attorno a cui scivola via mai noioso un altro dei pezzi “tipici”, apprezzabile ma con il difetto già citato di lasciarti un po’ lì a pensare se dovessi di punto in bianco dargli il titolo in mezzo a tante altre.
“Treinwreck” è un altro pezzo del filone riflessivo, con una lunga intro pulita, un ritmo decisamente meno sostenuto, accordi più distesi e diluiti e Sanders sotto pesante dose di valium. Bel pezzo, orecchiabile e d’atmosfera.
Dopo la nuova accelerata di “Trampled under hoof”, altro pezzo degno di nota del lotto con
“Trilobite”, che suggella la seconda parte più posata dell’album con una serie di mordi e fuggi di giri di chitarra puliti e di schizzi rabbiosi e distorti.
In dirittura d’arrivo tutti in piedi ad ascoltare l’ultimo sermone vinoso e urlato di
“Mother puncher”, che prelude la chiusura strumentale rockeggiante e distesa di
“Elephant Man”, i (molti) minuti giusti per rollarvi il rollabile soli con voi stessi e farvi un bel viaggio tra arpeggi ariosi e ispirati, su cui scorrono paesaggi ruvidi ma accoglienti.
“Remission” sono già i Mastodon come li ha conosciuti il grosso del pubblico in
“Leviathan”, con tutta la carica di brutalità imbrigliata da un sano e mai lezioso talento compositivo. La vaga (vaghissima) ispirazione prog che si vedrà appena un po’ di più nel lavoro successivo non allungherà mai più del dovuto un pezzo, non produrrà mai un accordo che non si inserisca obbediente nella rigida economia di un brano, piegandosi allo scopo ultimo del pezzo che nove su dieci è tirarti un gran calcio sulle gengive.
Come ho già accennato alcuni pezzi di “Remission” non si distaccano molto l’uno dall’altro, un po’ a causa del tipo di musica offerto, un po’ a causa del cantato, non si capisce bene quanto voluto effettivamente di questo tipo e quanto compromissorio con il livello del cantante.
Una caratteristica che in Leviathan è stata parzialmente messa a posto con un insieme di brani tutti molto ben definiti; e forse è proprio questo quel quid che ha collocato
“Remission” un gradino sotto al suo successore nel cuore del pubblico e della critica.
Non c’è altro infatti a separare due opere che in quanto a maturità, ribadisco, sono allo stesso livello.
Ampiamente consigliato a tutti i curiosi, a chi apprezza il metal estremo e non si fossilizza nei cliché ma soprattutto a chi ha voglia di ascoltare quattro o cinque volte un album prima di sparare la sentenza…
Mettetevi nello spirito giusto, dategli tempo, e questo brutto e bizzoso cavallo da lavoro un po’ spelacchiato e dalla voce avvinazzata si farà amare e vi accompagnerà fedele nelle vostre scorribande metalliche con più energia e passione di tanti stalloni fighetti e tirati a lucido.
Tracklist:
1. Crusher Destroyer 02:00
2. March of the Fire Ants 04:25
3. Where Strides the Behemoth 02:55
4. Workhorse 03:45
5. Ol’e Nessie 06:04
6. Burning Man 02:46
7. Trainwreck 07:04
8. Trampled Under Hoof 03:00
9. Trilobite 06:29
10. Mother Puncher 03:48
11. Elephant Man 08:01