Recensione: Renaissance
Sempre dalla Danimarca, un altro progetto di melodic metalcore. È quello dei Between Oceans, formatisi nel 2015 e che, dopo una formativa gavetta, hanno dato alle stampe un EP (“Oxymoron”, 2018), un singolo (“Fade”, 2021) e, soprattutto, il tanto sospirato debut-album, “Renaissance”.
Molto evocativo il nome della band, che rimanda a spazi sconfinati in cui mare e cielo si sciolgono l’uno nell’altro, frastagliati da spruzzi salati e venti impetuosi. Sì, perché questo genere così particolare assorbe dagli oceani le motivazioni che sono alla base di un songwriting assolutamente caratteristico, la cui esecuzione modula la musica in maniera del tutto personale. Difficile se non impossibile, infatti, non riconoscere dopo le prime note i dettami di base che alimentano i Nostri, assieme a tante altre realtà che li accompagnano nella realizzazione di un disegno artistico unico nella sua foggia.
E allora giù con i micidiali stop’n’go, che spezzano il tempo, oltre alle reni (‘Watercarrier’). Stop’n’go, o anche breakdown che dir si voglia, i quali fungono da pesantissimi intervalli all’interno delle canzoni. Altrimenti rischiosamente monotone seppure le battute del drumming siano in ogni caso rapide, sciolte, a volte accidentate, a volte vogliose di valicare la barriera dei blast-beats (‘Crossroads’).
Oltre a questa caratteristica peculiare, ciò che colpisce sono le harsh vocals, che sembrano fuoriuscire da una gola raschiata da un coltello e che, qui, a tratti, si trasformano in growling (sic!). Assai possente il riffing, di derivazione statunitense come da enciclopedia della tipologia di cui trattasi. Riff su riff che formano un muro di suono non male nella sua integrità, reso compatto dal rombo del basso, profondo come la fossa delle Marianne. Su questo nitido cristallo, le cui linee sono taglienti come le lame di un bisturi, la chitarra solista disegna armoniche successioni di note, a mò di finissimi arabeschi e dorati orpelli.
Ed è proprio qui, allora, che emerge il segno particolare principe del sound dei Between Oceans: la melodia, espressa principalmente mediante chorus cantanti con la voce pulita, come in ‘Legacy’; brano recalcitrante ma accattivante, obbediente all’antitesi fra rude veemenza e dolci ritornelli. Oltre a cori delicati e trasognanti, che instillano nel disco una rilevante visionarietà, moltiplicata nel suo effetto lisergico da insistenti campionamenti ambient che si dipanano quasi invisibili in sottofondo. Ma che hanno il compito decisivo di donare alle song di “Renaissance” la capacità di dipingere, nella mente, struggenti tramonti che si rispecchiano sulla superficie ondosa con tutti i colori del rosso. Oppure, di raffigurare tempeste che spostano l’immaginazione verso il blu del mare aperto.
A dire il vero non è che poi il combo di Copenhagen sia così melodico. Sicuro non si tratta di ragazzi senza spina dorsale. Certo, tutto quando scritto più su in ordine all’essere catchy è sempre valido, purtuttavia non sono poche le mazzate sulla schiena, come quelle fiondate da ‘Pressure’, per esempio. Cioè, l’LP appare un po’ più spostato verso la cattiveria musicale, invece che alla spasmodica ricerca dell’hit radiofonica, chiaramente impossibile da trovare fra i singoli episodi dell’LP stesso.
Insomma, si usa il bastone e la carota. Forse, più bastone che carota.
Questo è “Renaissance”, questi sono i Between Oceans.
Daniele “dani66” D’Adamo