Recensione: Repellent Gastronomy
Ancora un’uscita che mette in chiaro l’alta qualità raggiunta dal death metal nostrano, che ormai non ha da dimostrare più niente a nessuno.
“Repellent Gastronomy” è il debut-album dei Crawling Chaos, la cui carriera è assai più lunga di quanto possa far pensare tale considerazione. Nel 2003 l’inizio, nel 2005 la stabilizzazione della line-up, nel 2008 l’EP “Goatsuckers”, nel 2013 “Repellent Gastronomy”. Un percorso povero di uscite discografiche ma che ha irrobustito, e tanto, il retroterra culturale posseduto ora dalla band.
Sin dai primi passi, infatti, il disco suona adulto; come se si trattasse di un secondo o terzogenito. Ben lontane, cioè, certe incertezze e ingenuità caratteristiche delle Opere Prime. Al contrario, “Repellent Gastronomy” disegna un ensemble assolutamente conscio dei propri mezzi, pienamente consapevole del proprio stile, perfettamente capace di sigillare ciascun brano entro precisi dettami tipologici. A proposito di ciò, il death dei Crawling Chaos si alimenta da più parti prendendo spunto da band come i Nile, i Death e i Cannibal Corpse. Per giungere a un giusto equilibrio fra modernità (“Closing The Gates”, che rimanda addirittura al cyber à la Fear Factory) e ortodossia (“From The Unsafe Shrines Cometh The Abyss”).
Ortodossia che si manifesta con un gusto retrò mai troppo sopra le righe il quale, evidentemente, non può che trovare il corretto riscontro nell’old school; principalmente per il gigantesco lavoro delle chitarre, inesauribili sorgenti di riff dal flavour innegabilmente centrato sul thrash e death di fine ’80, inizi anni ’90. Riff rotondi, compressi, stoppati. A volte per nulla elementari (“Plate XII”) ma comunque sempre intellegibili e chiari, per bombardare senza pietà i timpani degli ascoltatori generando pure l’irrefrenabile istinto dell’headbanging. La quasi (incipit di “Promised UnHeaven”…) completa assenza di melodia è un elemento basilare del sound dei Nostri, il cui calore è però sopperito dal gran lavoro al basso di Gabriele Perilli, rombante elemento portante di un suono tremendamente massiccio e pesante.
Come da vecchia scuola, i tempi non sono mai ‘costantemente’ troppo spinti. In più di un’occasione (“Let The Vultures Sing Our Deeds”) l’accelerazione del drumming fora la barriera dei blast-beats, ma si tratta di segmenti limitati, appunto. Anche se, quando ciò si verifica (“Glory To My Enemy”), permane quell’estrema precisione di esecuzione che consente di far raggiungere lo stordimento da hyper-speed. E a volte, per tornare alle influenze primigenie restando in tema di batteria, non pare essere azzardato l’accostamento di alcuni pattern a certi rabbiosi quattro/quarti che, all’epoca, fecero la fortuna dei Necrodeath. Adeguata alla bisogna lo stentoreo growling di Manuel Guerrieri, stilisticamente privo di difetti anche se alla lunga un po’ monotono. Del resto il genere esige, scolasticamente, proprio un’interpretazione di tale tipo, per cui sarebbe errato parlare di vizio o difetto.
La straordinaria compattezza di “Repellent Gastronomy” bilancia più che sufficientemente, anzi, una composizione non particolarmente originale. In più, i Crawling Chaos riescono a essere lineari e impegnativi allo stesso modo, garantendo la simmetria anche riferendosi a questo parametro. Dimostrando, con questo e quant’altro già descritto, una maturità tecnico-artistica non da tutti i giorni.
Daniele “dani66” D’Adamo
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