Recensione: Requiem

Di Pier Tomasinsig - 23 Maggio 2008 - 0:00
Requiem
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Anno: 2008
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74

Nel nutrito novero delle one man band dedite al black metal atmosferico e depressivo, gli I shalt become meritano una menzione a parte, se non altro per ragioni di importanza storica. Il progetto solista dello statunitense S. Holliman nasce infatti nell’ormai lontano 1995, esordendo sul mercato discografico l’anno successivo con il full length “Wanderings”, una perla dimenticata di black misantropico e angosciante, ampiamente ispirato ai Burzum del periodo “Det som engang var”/”Filosofem”, soprattutto nelle parti atmosferiche e nell’uso delle tastiere.
Un album che, così come le opere di Vikernes alle quali consapevolmente si rifà, ha posto le basi di quella corrente che successivamente sarà denominata depressive black, anticipando e certamente influenzando i conterranei, e ben più noti, Leviathan e Xasthur.

La storia degli I shalt become si interrompe provvisoriamente nel 1999, quando S. Holliman scioglie la band per dedicarsi all’altro suo progetto solista Birkenau, con cui incide un unico demo, “The falling snow”, poi pubblicato ufficialmente nel 2008 dalla No colours come album degli I shalt become. La one man band americana torna così sulle scene dopo più di dieci anni di silenzio discografico, dando alle stampe a distanza di soli tre mesi l’uno dall’altro “The falling snow” e un nuovo full length, “Requiem”. 

Coloro che già conoscono gli I shalt become sapranno certamente cosa aspettarsi da questo terzo terzo capitolo: “Requiem” si pone in termini di perfetta continuità con il passato, riproponendo la formula consueta: un black metal lento, freddo e dilatato, tendenzialmente monocorde, fortemente improntato sull’uso delle tastiere.
Le dieci tracce di cui l’album si compone si dipanano tra arpeggi dark ipnotici e insistenti, riff minimali e distorti all’insegna del nichilismo musicale, momenti riflessivi e malinconici contrapposti a passaggi solenni e maestosi e ad accessi di sgomento e afflizione. L’atmosfera che si respira è gelida e straziante, anche se tra i solchi di tanta desolazione si avverte di quando in quando un certo flavour epico, presenza sotterranea che talvolta, come in ‘Enigma’ o nella splendida ‘Want’, viene alla superficie e si concretizza in melodie al contempo grandiose e decadenti.
L’intero album si sviluppa in un vortice oscuro e inquietante di sensazioni cupe, tormentate, attraverso suoni opprimenti e spesso dissonanti, scanditi da una batteria fredda e asettica. Le onnipresenti tastiere rivestono un ruolo di primaria importanza e sono fortemente improntate ad una vena dark/ambient, in cui si palesano in modo inequivocabile le già richiamate influenze burzumiane.
Le tracce sono tra loro molto omogenee e quasi totalmente strumentali, mentre le parti cantate sono rare: la voce è qui utilizzata alla stregua di uno strumento “comprimario” e resta per lo più in secondo piano, alternando uno screaming sferzante ad un growling profondo e abissale, che in pochi laceranti versi vanno a tratteggiare con notevole forza evocativa scenari di vuoto e profonda angoscia.

Certamente “Requiem” è un lavoro che suona molto classico, nel senso che è perfettamente inquadrato nei canoni del genere, e in ciò trova la propria forza così come le proprie debolezze. Da un lato infatti l’obbiettivo di creare un eloquente affresco di misantropia e fredda disperazione è pienamente raggiunto e non stento a credere che questo disco farà la gioia (si fa per dire) degli amanti di certe sonorità. D’altro canto, non posso fare a meno di constatare che il nostro non si è discostato neanche un po’ da quanto già detto in precedenza, proponendoci nel 2008 un disco che non mostra una significativa progressione rispetto all’esordio di oltre dieci anni fa, se non sotto il profilo meramente tecnico della produzione, oggi più adeguata che in passato. Il che non sarebbe un problema, posto che un personaggio come S. Holliman non ha nulla da dimostrare a nessuno, non fosse che, a dispetto dell’indubbia qualità della musica proposta, questo “Requiem” mi ha lasciato una netta sensazione di già sentito.

Cionondimeno credo sia stato importante che gli I shalt become siano tornati a calcare le scene con questo disco e con “The falling snow”. Queste due nuove uscite potrebbero fornire a molti ascoltatori della nuova generazione, appassionati al black depressivo e atmosferico di scuola americana, l’occasione di scoprire (o riscoprire) una band che ne è stata l’antesignana, alla quale è giusto e doveroso rendere tributo, se non altro per essersi dedicata a tali sonorità in un momento in cui ancora non avevano tutto il riscontro che hanno oggi.

TRACKLIST:

1. Intro  
2. An Atteridgeville Horror  
3. Cleansed  
4. Enigma  
5. The Corpse in the Forest  
6. Seven Days to Dead  
7. The Casket Letters  
8. Beggars Belief  
9. Want  
10. Outro

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