Recensione: Rescue
Rescue è il quinto e ultimo album degli Shaman, band brasiliana fondata a São Paulo nel 2000 e con alcune vicissitudini restata attiva fino al 2022. Il gruppo nasce come costola degli Angra e vede Andre Matos come leader indiscusso nell’album di debutto Ritual, che entusiasmò la critica vent’anni fa. Oggi siamo ai titoli di coda per gli Shaman, ma l’ultimo disco in studio è un commiato davvero benfatto. Parliamo infatti di un platter di power metal confezionato come si deve, sia dal punto di vista compositivo, sia per quanto riguarda la produzione (complice il solito Sascha Paeth), con una line-up valida e buoni arrangiamenti. Resta, infatti, la coppia dei fratelli Mariutti, Ricardo Confessori alle pelli, mentre al microfono arriva Alírio Netto.
Superato l’intro strumentale, “Time Is Running Out” è l’opener che ci vuole per partire con il piede giusto. Doppia cassa, tanta energia, refrain trascinante, vengono in mente gli Avantasia e Alírio Netto al microfono dimostra tanta personalità oltre che competenza melodica. Alla fine del terzo minuto, dopo note di violino, è Luis Mariutti a proporre il suo inconfondibile virtuosismo al basso, confermandosi una sicurezza. Prima dell’epilogo c’è spazio anche per un assolo di sintetizzatore e uno di chitarra. Cosa chiedere di più a un brano power metal?! Non possiamo che essere invogliati a proseguire l’ascolto dell’album.
“The “I” Inside” è il pezzo più lungo in scaletta, si aggira attorno ai 360 secondi e parte con rimandi etnici come fu per Holy Land e più recentemente Aurora Consurgens degli Angra. Nel prosieguo il sound si normalizza e ritorna il power canonico che ci aspettiamo. Il drumwork di Ricardo Confessori ha qualcosa di magico, nel bene e nel male resta riconoscibilissimo e dona ai brani un’originalità rara. A metà del pezzo restiamo incantati da un break di pianoforte e violino, ma è notevole anche il modo con il quale la song rinasce dalle ceneri per chiudersi circolarmente.
Davvero un ottimo avvio quello di Rescue, sarà così per tutta la durata del platter?
“Don’t Let It Rain” non è un punto debole in scaletta, anzi. Con la sua carica catchy ipermelodica non potrà lasciarvi indifferenti, poco importa non sia metal tout court, ma una sorta di AOR vitaminizzato. “Where Are You Now?” è una semi-ballad, piacevole ma non riuscita al cento per cento; fortunatamente le parti di pianoforte e violino limitano i danni. Non possiamo dire, comunque, che dopo questo mezzo passo falso l’album non torni su buoni livelli, perché a seguire troviamo “The spirit”. Trattasi della vera hit song del disco, con rimandi agli Helloween e reali momenti di pura melodia nel ritornello. Si rivela un brano pressoché perfetto nell’arrangiamento: se ci fosse stato il miglior Matos al microfono sarebbe l’apoteosi.
Negli ultimi venti minuti del full-length troviamo altri momenti niente male: lo struggimento teatrale della ballad “Gone Too Soon” (per un attimo sembra di ascoltare i nostri Labyrinth); i synth anni Ottanta di “The Boundaries of Heaven” (pezzo con un certo potenziale); le note alte di “Brand New Me”, infine gli acuti della conclusiva “What If?” (che presenta anche alcune venature blues). La bonus track “Resilience” è la chicca immancabile, un brano acustico con aggiunta di archi e hammond: torna alla mente l’atmosfera sospesa e fatata di “Deep Blue”, canzone che tutti gli amanti di Holy Land conoscono bene.
In conclusione il successore di Origin (altra ottima uscita del combo brasiliano) è un album con un suo perché, coeso e potente. Consigliamo Rescue a tutti gli amanti del power moderno. A fronte di questa qualità, spiace che la band si sia sciolta nuovamente; in due decenni di carriera, con una manciata d’album e un sontuoso livd dvd, ha regalato magia. Staremo a vedere se “Cycles Of Pain” degli Angra saprà reggere il confronto. Dischi così validi sono preziosi al giorno d’oggi.