Recensione: Resistance
Deathcore!
Una delle più riuscite derivazioni del death classico continua a sfornare band su band e dischi su dischi, in particolar modo negli Stati Uniti. Così, ecco il quinto album degli americani Winds Of Plague: “Resistance”. Una carriera succosa, la loro, cominciata nel 2005 – ma risalente addirittura al 2002 quando il moniker era Bleak December – e costellata da una produzione discografica di tutto rispetto, che annovera in particolare cinque full-length: “A Cold Day In Hell” (2005), “Decimate The Weak” (2008), “The Great Stone War” (2009), “Against The World” (2011) e “Resistance”, per l’appunto.
Il deathcore è uno stile che basa la propria riuscita sulla forza fisica: ritmi cadenzati, pesantissimi; breakdown ad alta pressione; muraglioni giganteschi di riff; growling/screaming dalla folle aggressività; basso a bombardare di continuo. In questo, bisogna ammetterlo, i Winds Of Plague non sono secondi a nessuno: il sound di “Resistance”, grazie anche alla superlativa qualità manifatturiera della Century Media Records, fa davvero paura tanto è energeticamente sconfinato lungo tutti e tre gli assi cartesiani. Il ‘wall of sound’ eretto da Johnny Plague e compagni è diretto, frontale, annichilente ma, allo stesso tempo pulito; talmente lindo e pulito che se ne può discernere ogni singolo… mattone.
I Nostri, però, provano a metterci del loro, per movimentare un poco le acque. E così, quello che spesso e volentieri è solo una pennellata per colorare tenuamente l’atmosfera, e cioè il ricorso alle tastiere, diventa un elemento portante di un sound travolgente. Alana Potocnik, difatti, partecipa fattivamente alla causa tessendo eccellenti trame alle tastiere dal deciso sapore gothic/horror ma, soprattutto, inserendo delle poderose orchestrazioni assai melodiche che caratterizzano uno stile così personale e, perché no, piuttosto originale. Tale da rendere la definizione ‘symphonic deathcore’ non così strampalata come potrebbe sembrare a prima vista. A ben rifletterci, infatti, ‘deathcore’ e ‘sinfonia’ condividono un comune denominatore pregno d’impeto, dinamismo e tanta, tanta gagliardia.
Comunque sia, l’idea del sestetto californiano si presta a più di una soluzione, potendo per ciò spaziare dalla musica da film (incipit di “Open The Gates”) alle rabbiose mazzate dei blast-beats (“Left For Dead”), passando per i tremendi stop’n’go delle decelerazioni iperbariche di cui è capace il deathcore (“Time To Reap”). Anche se, forse, la massima efficacia in termini d’impatto sonoro viene ottenuta durante i sulfurei mid-tempo (“One Foot In The Grave”) che sconquassano le budella. La ferocia di Plague è la guida per il resto della formazione, talmente sono ben impostate e sicure le sue linee vocali, molto al di sopra della media di un genere che propone a volte vocalist un po’ troppo simili fra loro.
Non ci sono capolavori, in “Resistance”. La qualità delle canzoni è alta poiché la tecnica esecutiva e l’indubbia professionalità del combo di Upland non lasciano spazio a interpretazioni. I Winds Of Plague sono dannatamente tosti, e questo fatto s’intuisce in tutti i passaggi del disco. Tuttavia, si ‘sente’ poca naturalezza, come se le song fossero troppo ragionate, troppo studiate. Non si percepisce, cioè, quel pizzico d’istintività che non guasterebbe in un album come questo; improntato sia sulla melodia, sia sull’impetuosità. Lungi dall’essere un peccato mortale, tale restituzione, emotivamente leggermente rigida e fredda, si lascia volentieri da parte quando la spinta del suono raggiunge livelli vertiginosi, come nella martellante, hardcoriana “United Through Hatred”, o nella rocciosa, devastante “Good Ol’ Fashion Bloodbath”.
Trentaquattro minuti da staccare le vertebre del collo, comunque: deathcore!
Daniele “dani66” D’Adamo
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