Recensione: Resurrection

Di Vito Ruta - 16 Ottobre 2022 - 0:01
Resurrection
Band: Wildness
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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70

Mantengono inalterati formazione e stile musicale gli svedesi Wildness che, partendo come progetto da studio, sono divenuti un gruppo in pianta stabile ed hanno firmato un contratto multi-album con Frontiers Music.

A meno di due anni da “Ultimate Demise”, la band presenta con la label italiana il terzo platter in carriera intitolato “Resurrection”.
L’album, composto da undici brani di rock melodico, è stato prodotto, mixato e masterizzato dal batterista Erik Modin, membro fondatore e principale autore della band, e vede il contributo dei cantanti Danny Rexon (Crazy Lixx), Hank Erix (Houston), Ludvig Turner (Reach) e, ai cori, Dani Hart.

I punti di forza e le criticità evidenziati in occasione della precedente uscita trovano conferma in “Resurrection” che risulta nel complesso garbato, delicato e gradevole ma non offre, se non in sparute occasioni, tracce davvero incisive, capaci di suscitare emozioni a primo acchito e di lasciare ricordi ben definiti.

Abbastanza buona la partenza con “Nightmare” che offre il primo chorus orecchiabile ma che, tuttavia, non esalta.
Si fa strada attraverso un breve ed etereo intro synth, come una lama affilata nel burro, il riff cattivo di “Release The Beast” che riesce a mantenere alta la tensione per tutta la durata della traccia.
I coretti mielosi e stra-abusati che aprono “Tragedy”, annunciano il carattere troppo easy del brano che trova il proprio unico riscatto nei veloci solo.
Love Resurrection” è, invece, un pezzo convincente e dinamico a cui non manca nulla. Apre con un riff dal suono caldo e coinvolgente, di quelli alla maniera dei Ratt per intenderci, e presenta un ritornello catchy assolutamente non scontato.

In “Best Of Me” i Wildness ricorrono ad un altro intro synth, a cui sembra affidato il compito di raccordare passato e presente, nonché a massicce dosi di tastiere per ricreare le classiche sonorità AOR anni 80. E ci riescono.
I brani che si susseguono nella seconda parte del disco costituiscono una serie di tipici prodotti del genere melodic rock senza infamia e senza lode, tra cui ben tre ballads.

Tra queste ultime si contraddistingue per essere una traccia sobria, dalla vaga atmosfera celtica, “Dawn of Forever”, mentre pollice verso merita la banale “Lonely Girl” che neppure il solo acustico riesce a risollevare.
Il riff serrato e il chorus partecipato di “Eternity Will Never Fall” chiude l’album con un certo brio e di pezzi come questo l’intero album avrebbe sicuramente giovato.

Che dire…quella che sulla carta costituiva l’occasione di una conferma definitiva per i Wildness si traduce in un rinvio.
La fine dei tempi che, dopo il Giudizio Universale, condurrà, secondo le dottrine escatologiche, alla resurrezione della carne, del resto, può bene attendere.

 

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