Recensione: Resurrection Denied
Ancora Death Metal Italiano e questa volta si tratta del debutto dei romani Devangelic. Debutto, certamente, ma basta dare un’occhiata alla line-up della band per capire che si tratta in gran parte di facce niente affatto sconosciute all’interno della scena. Alla voce, abbiamo Paolo Chiti, già growler di Putridity e CorpseFucking Art, alla chitarra c’è Mario Di Giambattista (Vulvectomy, CorpseFucking Art e mille altri), alla batteria Alessandro Santilli (Indecent Excision), coadiuvati da Damiano Bracci al basso. Tutto questo per dire che non si tratta dei primi arrivati e probabilmente è stato questo il biglietto da visita che ha invogliato l’attiva Comatose Music (Antropofagus, Kraanium, Logic Of Denial) a supportarli nella loro prima uscita sulla lunga distanza, il presente Resurrection Denied.
Inciso, si parlava di scena death e penso sia palese il livello che quella italiana ha oramai raggiunto: al di là della qualità intrinseca delle band (comunque mediamente alta), quello che più colpisce è il grado di interazione e collaborazione tra i gruppi che la compongono; chi scrive lo ha notato nel corso del recente Brutality Over Europe tour che ha attraversato il Vecchio Continente, ma questo è evidente anche solo osservando le line-up sempre così interlacciate, le date condivise, la stima reciproca che si evince dai post sui social network o anche solo dalle t-shirt che i vari componenti si scambiano. Tutto ciò non può che fare bene al movimento, del resto è (anche) così che sono venute fuori la scena di Gothenburg, quella di Tampa, il thrash della Bay Area, etc. E sembra che anche le etichette estere così come gli appassionati al di là dai confini nazionali se ne stiano accorgendo.
Tornando in tema, l’album dei Devangelic si presenta integralista e senza compromessi già dal primissimo impatto: titolo e artwork “illegali in molti paesi” (cit.), testi anticristiani e antireligiosi privi di metafore, il tutto in nove pezzi per una durata complessiva di poco più di mezz’ora di musica, realizzata ai 16th Cellar Studio di Roma con Stefano Morabito (continuano i nomi conosciuti…).
Siamo certamente in ambito brutal e in questo caso si tratta del tipo più estremo ed oltranzista, lontano da quello più attuale e alla moda che a volte incorpora elementi di provenienza polacca (fate voi i nomi) o derive -core. Al contrario, lo stile è tipicamente americano, sulla falsariga dei vari Disgorge, Gorgasm o, tornando in Europa, degli italiani Exhumer o degli olandesi Prostitute Disfigurement. Pura violenza fatta musica, nessun orpello tecnico (non ho notato assoli veri e propri nell’album, allo stesso modo rare mi sono sembrate le incursioni della chitarra verso le note più alte della tastiera) per nove pezzi tutti molto simili tra loro come costruzione. Intendiamoci, si tratta di un (sotto)genere musicale per nulla destinato al grande pubblico – al contrario – tanto che certe scelte sonore portate all’estremo, certe atmosfere parossistiche sono praticamente un must. E’ un continuo macinare di doppia cassa e di riff sulle corde più spesse, un alternarsi di accelerazioni e stacchi rallentati, scelta indispensabile per poter concedere respiro all’ascoltatore prima di affrontare le successive ripartenze. Quello di Paolo Chiti è un growling profondo e chiuso su se stesso, che non cerca intelligibilità alcuna e sputa la propria empia blasfemia senza ricercare sfumature di sorta. In un certo senso ricorda il Chris Barnes dei tempi migliori (e logicamente quelli dei Cannibal Corpse). La resa sonora è buona, rotonda e pesante come si deve, ma meno pulita e tagliata di altre recenti produzioni made in 16th Cellar: un’altra scelta intelligente che aiuta il cd a risultare meno accattivante e più radicale. Specialmente la batteria ha un flavour genuino, in particolar modo a livello di tom e rullante, privo di fill non indispensabili. Il tutto, a vantaggio del risultato finale, che suona crudo e deciso.
Inutile e complicato menzionare titoli che in qualche modo si elevano o si distinguono dagli altri. Il lavoro è assolutamente compatto e lineare: chiaramente, questo alla lunga potrebbe risultare come il limite principale della band (e del genere). Per ascoltare un lavoro come Resurrection Denied è indispensabile, oltre che essere amanti del genere, un certo tipo di apertura mentale e la predisposizione alle scelte compositive più monotematiche e claustrofobiche.
Con la professionalità tipica di chi il death metal lo mastica da tempo, i Devangelic rigurgitano nove tracce di musica brutale, opprimente, spietata: il Regno dei Cieli è ancora più lontano. Per aficionados.
Vittorio “Vittorio” Cafiero