Recensione: Resurrection Kings
Mi perdoneranno i lettori di Truemetal.it se lo incipit della recensione di questo primo lavoro intestato al roboante monicker Resurrection Kings, non può che essere simile a quello degli svariati progetti artistici che popolano l’offerta musicale melodic rock contemporanea: c’era una volta – e c’è ancora – un non dimenticato asso della chitarra hard rock, Craig Goldy, che i conoscitori di questo genere musicale rammentano dietro la sei-corde in quel meraviglioso album di patinato rock adulto che fu il primo, omonimo lavoro dei Giuffria (correva l’anno 1984 o giù di li). Poi, il valente musicista ha intrecciato spesso i propri destini musicali con i Dio del mai troppo compianto Ronnie James, sia negli anni Ottanta sia alle soglie degli anni zerozero. Tra una collaborazione e l’altra, il nostro axeman si è fatto ascoltare anche con i suoi Craig Goldy´s Ritual.
Di recente, Goldy ha incontrato Chas West, vocalist ex collaboratore di Jason Bonham ed altri, ed i due hanno così realizzato un demo, contenente la canzone Livin’ Out Loud. Il brano, a quanto pare, avrebbe giustamente ben impressionato il boss della Frontiers Music, Serafino Perugino, il quale ha consigliato ai due di completare la line up con Sean Mcnabb al basso e l’inossidabile Vinny Appice alla batteria. Complice il tocco magico del produttore Alessandro Del Vecchio, ecco arrivare, dopo qualche tempo, le undici tracce contenute nel debut album dei Resurrection Kings.
Fin dalle prime note del lavoro, all’ascoltatore sembra di prendere la macchina del tempo e di tuffarsi in un suono tipicamente anni ottanta, tra l’incedere ruffiano della ritmica, cori propizianti e riff ficcanti ma gradevoli.
Path Of Love, tanto per fare un esempio, è un brano dinamico e nervoso che aggredisce con sequenze di note dell’ascia saettanti come anguille, in un contesto del tipo Led Zeppelin meet Whitesnake.
E se Distant Prayer, con i suoi riff taglienti, i suoi grandi cori ed il suo portamento marziale fa riferimento proprio ai Whitesnake degli Eighties, la già citata Livin’ Out Loud mantiene lo stesso tenore ma con una propensione più inquieta e bluesy ed uno sguardo rivolto piuttosto a Plant, Page & company.
Dio e Giuffria, si diceva, rappresentano il pedigree del leader, ma i Resurrection Kings sembrano spesso protendere verso le suggestioni dei secondi (al netto dei suoni dei tasti d’avorio del leader Gregg, naturalmente): a dimostrarlo, ecco, infatti, Who Did You Run To, che è un hard rock cadenzato con sfumature class ed AOR ed un gran gioco di chitarra anche nei melodici assoli, e Wash Away, la quale è un rocker duro ma piacione e melodico, caratterizzato da cambi di velocità tra momenti più rarefatti e svelto heavy rock. Lo stesso può dirsi di Had Enough, in cui gli arpeggi iniziali introducono un elegante rock duro sconfinante nell’AOR.
Fallin’ For You, invece, è una traccia non troppo veloce dal chorus melodico e dagli assoli di chitarra particolarmente in vista e stesi su ritmiche cangianti ed influssi Rainbow, mentre Never Say Goodbye è una ballata elettrica d’alta scuola con un ritornello radio friendly come nella migliore tradizione ottantiana ed una lunga e languida performance della sei-corde, che farebbe faville in heavy rotation su MTV se vivessimo ancora trent’anni nel passato.
Certo, qualcosa, in quest’album, avvince meno (Silent Wonder, ad esempio, arranca un po’ tra vari cambi di ritmo e di passo senza decidere mai che direzione prendere), ma Resurrection Kings mantiene, nel complesso, la sua mission di farci immergere pieni di nostalgia in antiche atmosfere musicali.
Il platter, insomma, pur non proponendo nulla di rivoluzionario e, anzi, manifestandosi talora fin troppo canonico, si fa ascoltare con grande piacere grazie alla costante energia emanata, alle impeccabili esecuzioni strumentali e vocali e ad una produzione di serie A (qualcuno, al proposito, dovrebbe proporre, prima o poi, il talento italiano Alessandro Del Vecchio per una onorificenza al merito dell’hard rock melodico!).
Francesco Maraglino