Recensione: Retransmission
Che stranezza chiudere la contesa del disco migliore dell’anno direttamente nelle prime settimane di gennaio.
Una disdetta, se vogliamo ragionare su quanto tempo manchi ancora prima del termine del neonato 2021. Eppure una specie di “dato di fatto” pressoché incontrovertibile se rapportato alla qualità di quanto è accaduto di ascoltare (ripetutamente) in questo nuovo, entusiasmante album degli W.E.T..
Evitiamo la solita tiritera in merito a chi siano gli W.E.T, band formata da membri di Work of Art (Robert Såll), Eclipse (Erik Mårtensson) e Talisman, (Jeff Scott Soto). Elidiamo pure il fatto che al microfono si possa ascoltare una voce che risulterebbe affascinante e stellare anche se cantasse una banale lista della spesa. Saltiamo piè pari il fatto che alla composizione siano individuabili due dei migliori talenti del rock melodico contemporaneo, simboli assoluti della moderna eccellenza in campo melodic rock.
Il nocciolo della questione è che, quanto ascoltato in “Retransmission”, pone innanzi agli occhi e dentro alle orecchie un nuovo livello di superiorità proprio in tali ambiti, quelli del rock melodico. Un livello che sarà, da qui in avanti e anche per loro stessi, difficile da eguagliare.
Figuriamoci superare.
Impressionante. Non ci viene termine migliore e più attagliato nel descrivere quello che il trio di magnifici artisti ha saputo codificare nell’arco di undici tracce.
Tutto odora di perfezione.
Dal taglio melodico, facile, immediato e dinamico ma mai “piacione” o troppo auto incensatorio. Passando per la genialità di alcuni ritornelli che spalancano finestre su immagini esaltanti cariche di colori estivi, ravvivando sensazioni che credevamo sopite.
Senza tralasciare la tecnica muscolare, feroce e quasi aliena dei singoli, sbattuta in faccia con nonchalance e naturalezza in un’orgia di suoni che riesce a suscitare sempre almeno un’emozione.
Grandeur assoluta insomma, duratura, massima, goduriosa, solenne.
Del resto con un opener straordinaria come “Big Boys Don’t Cry” meglio non si poteva dare il via ad un disco che potrà essere ricordato a lungo.
Un ritornello perfetto, un po’ “Leppardiano”, che si apre improvviso regalando un motivo “strappaorecchie“, in netto contrasto con l’irruenza del resto del brano.
Una formula ripetuta in lungo ed in largo, sparigliando le carte di molteplici influenze che richiamano come un pantheon di leggendari mentori tanti dei nomi che abbiamo amato in passato.
Sullo sfondo di canzoni coinvolgenti e ricche di pathos quali “The Call of the Wild”, “Got to be About Love“, “Coming Home” e “One Final Kiss” (ma potremo bellamente citarle tutte in sequenza) si stagliano tuttavia le personalità di tre musicisti d’immenso talento, protagonisti principali di un progetto che era partito come estemporaneo ma ha raggiunto lo status di band ai confini della leggenda.
Soto, Mårtensson e Såll sembrano, oltretutto, divertirsi parecchio nel far musica insieme, sintomo di una sinergia che pare ormai essersi cementata in forma definitiva i cui esiti, anche dal punto di vista dell’affiatamento, sono nuovamente molto ben udibili.
Con gli ultimi due album in particolare, gli W.E.T. hanno piantato nella storia del rock melodico una pietra miliare destinata a divenire termine di paragone per gli anni a venire, a memoria esemplificativa per chi, da qui in poi, vorrà cimentarsi nel campo.
Classe innata, frammista all’orgoglio di un hard rock che ha radici profonde negli anni ottanta.
Radici mai negate, anzi sempre onorate e poste in bella mostra. Corazzate però da un respiro attuale che garantisce freschezza e ne dilata la forza d’urto, amplificando l’idea che questo possa essere – finalmente – quello che personalmente attendevamo da tempo.
L’hard rock 4.0.
Quello che rimane fedele a se stesso ma sembra inventato oggi: moderno, ma con all’interno quel cuore pulsante di bellezza eighties dai tratti somatici ben riconoscibili.
L’erede ideale di un’epoca mitizzata e mai perduta.