Recensione: Retrogore

Di Andrea Poletti - 3 Maggio 2016 - 0:09
Retrogore
Band: Aborted
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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73

Non è un brutto disco, sostanzialmente perfetto, è solo uscito nel 2016.

Questa potrebbe essere la sintesi di questo nuovo, ottavo album in studio degli Aborted. Andiamo con ordine perché di caos c’è ne abbiamo in abbondanza grazie alle dodici canzoni dei nostri deathster. Ci eravamo lasciati poco più di qualche settimana addietro con l’ultimo EP “Termination Redux” che aveva regalato al pubblico alcune soluzioni differenti dal classico stile del gruppo; oggi possiamo confermarlo, gli Aborted stanno esplorando nuovi territori e lo fanno con la professionalità di chi ha sulle spalle vent’anni di carriera. Danny Tunker se ne è andato e al suo posto arriva Ian Jekelis, meglio conosciuto per le sue passate avventure con gli Abigail Williams e gli Abysmal Dawn, a portare una ventata di novità. Cosa ci offre questo ennesimo capitolo della saga belga a conti fatti? Meglio o peggio di prima? Differente si e paradossalmente uguale a se stesso, ma sempre con alti standard. Veniamo a noi.

Classica intro che ci accompagna nei brevi secondi prima della mazzata nello stomaco concessa dalla ‘Titletrack’, che rimarrà insieme ad un paio di brani quali ‘Bit By Bit’, ‘Forged By Decrepitude’ e ‘From Beyond (The Grave)’ sulla classica linea compositiva scelta nelle ultime uscite dalla band. Chi ha apprezzato il precedente “The Necrotic Manifesto” non potrà che non gioire all’ascolto di questi brani, che come da prassi, tendono a mischiare il brutal più oltranzista con la verve di un epoca passata dove i Carcass mietevano vittime a destra e manca. Sono i brani restanti, quegli otto che completano la tracklist che offrono la versione moderna, rivisitata, ed amplificata di ciò che stanno diventando o più semplicemente stanno sperimentato gli Aborted. Prima di spiegare ciò che è percepibile in queste otto tracce, andiamo a soffermarci per un momento sul background di “Retrogore”: scritto direttamente in studio in ventidue giorni totali, la band ha deciso di effettuare poche prove prima della registrazione ed di affidarsi a Kristian Kohlmannslehner come produttore. A molti non dirà nulla questo nome, non essendo tra i più blasonati, ma questo uomo ha dato vita ad alcuni album targati Crematory e Powerlwolf; focalizzandoci su questo aspetto è palese come la spinta verso territori lateralmente vicini al doom e ad una sinfonica ambientazione delle canzoni, emererà probabilmente in maniera preponderante. Tutto chiaro ora? Pronti?

Cadaverous Collection’, il singolo ‘Divine Impediment’, ‘Coven of Ignorance’ e la conclusiva ‘In Avernus’ hanno indistintamente il trademark Aborted scolpito nel DNA, ma allo stesso tempo i rallentamenti infarciti di una discreta dose di synth, offrono vaghi richiami al doom e al post-metal, destrutturando e intossicando la candida aurea di pereftti brutallari dei nostri. Non è uno stravolgimento, non è un cambio di direzione ma la volontà di testare la calibratura di certi settori prima di oggi inesplorati è palese. Offrire una dinamica maggiore ed una verve compositiva che sfiora il surreale, comporta una sperimentazione in movimento ed il bizzarro che avanza; In poche parole: ottimo! Avete presenti i film di serie B con le soundtrack che tanto andavano di moda negli anni 70? Prendete la suspense che li contraddistingueva, fatene tesoro, perché quella è l’arma perfetta con cui andare a comprendere gli Aborted Anno Domini 2016. Intrappolare i malvagi dello schermo dentro canzoni brevi, accattivanti e paradossalmente monolitiche. I Cattle Decapitation! Proprio loro. Che c’entrano questo loschi figuri? Travis Ryan è sì guest su ‘Divine Impediment’, ma ascoltare canzoni quali ‘The Mephitic Conundrum’ ed il suo passaggio da 2:23 a 2:40 o ‘Whorermageddom’ porta all’orecchio alcune sonorità tipiche della band di San Diego, che pare proprio aver avuto il merito di sfondare il muro costruito negli anni dai belgi, andando a portare una lieve sfumatura tra un blast beat e l’altro. Altri sono i guest lungo la tracklist, da Jason Kayser passando Julien Truchan, si sentono, si percepiscono, ma vengono sovrastati ed affossati in un mare di growl, che Svencho tende a far uscire stile pentola a pressione quasi senza cognizione. Questi sono loro, o li si ama o li si odia. Aperti a nuove sonorità, in cerca di soluzioni alternative ed altisonanti senza riuscire a centrare a pieno il bersaglio, desiderando “la botte piena e la moglie ubriaca”. Questo probabilmente il grave difetto che sta alla base di “Retrogore”, l’essere discretamente prevedibile in alcuni passaggi e avere una cospicua dose di novità che finiscono per riprendersi passo dopo passo. Ultimo fattore, ma non in ordine di importanza, è l’essere venuto dopo non solo “The Necrotic Manifesto”, ma anche dopo il mutevole “Global Flatline” (citare “Gorearmageddon” oggi è fuori luogo, essendo la band molto istante da tali sonorità), dove i nostri hanno sparato una serie di pallottole da far invidia a molti del genere. 

Retrogore” è stilisticamente perfetto, viene potenziato da una produzione al limite del cristallino per quello che riguarda il comparto brutal/death e vive di molti apici e molte buone idee al suo interno. Pecca solamente nell’essere oramai prevedibile; i piccoli cambiamenti che portano verso lidi doom e post metal sono di ottimo livello, ma non mutano sostanzialmente la spina dorsale su cui si posa la band, che ad oggi riesce sì a non toppare come in passato rimanendo fedele ad un trademark di alto livello,  però ahimè non ha più la cricca e quella dose sulfurea di marcio che potevamo assaporare anni addietro. Per tutti gli amanti della band questo è un ottimo gioiello da ascoltare infinite volte, sino al prossimo album, perché tra dieci anni quando gli Aborted saranno al dodicesimo-tredicesimo album in studio, non parleremo sicuramente di “Retrogore”  ma piuttosto a urlare insieme “The Doctor… is in!“. Ci risentiamo tra qualche anno così mi saprete dire.

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