Recensione: Return of the Dragon

Di Andrea Bacigalupo - 1 Novembre 2021 - 0:00
Return of the Dragon
Band: Sacred Oath
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Power  Thrash 
Anno: 2021
Nazione:
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82

Se mi si chiede se conosco bene gli statunitensi Sacred Oath devo rispondere sinceramente di no! Li conosco molto poco, non perché non li reputi interessanti, il loro primo album ‘A Crystal Vision’, uscito nell’era preistorica datata 1987, mi era piaciuto, non un miracolo, ma un Heavy /  Thrash senza infamia e più di una lode, con già impiantato tra i solchi il tratto distintivo del combo: la particolare atmosfera cupa del loro sound rafforzata dalla voce duttile ed energica di Rob Thorne.

Il gruppo si è sciolto poco dopo l’esordio, a dicembre del 1988, e questo è il motivo per cui l’ho perso di vista, neanche mi sono accorto che si è riformato circa dieci anni dopo, ma sono talmente tante le band che è impossibile stare dietro a tutte, figuriamoci a quelle poco stabili.

Gli ho ritrovati nel 2013, quando ho ascoltato il nuovo ‘Fallen’, un lavoro che mi ha colpito positivamente per la sua alta carica di energia oscura e la sua maturità compositiva.

Li rincontro nuovamente ora con ‘Return of the Dragon’, nuovo album e nono della serie (dopo ‘Fallen’ la band ha pubblicato ‘Ravensong’ nel 2015 e ‘Twelve Bells’ nel 2017), disponibile dal 2 aprile 2021 ed autoprodotto come tutti gli altri.

Diciamo che la novità principale è il debutto discografico del giovane Damiano Cristian, talentuoso musicista entrato nel 2017 come terzo chitarrista e tastierista in sede live durante il ‘Twelve Bells Tour’ ed ora diventato membro effettivo.

Per il resto, del branco di dinosauri iniziale (affettuosamente parlando) rimangono Rob Thorne e Kenny Evans ma rispetto all’ultimo album la formazione resta invariata, dimostrando una buona coesione.

Diciamo che con ‘Return of the Dragon’ i Sacred Oath si orientano verso sonorità decisamente più intrise di melodie ed atmosfere cangianti che non di riff macinati uno sull’altro ed il termine Thrash Metal affibbiato agli inizi è sempre più improprio, percependone giusto il retaggio qua e là.

Una scelta artistica che ci sta e che non è sinonimo di rinuncia alla potenza sonora da sempre manifestata: i Sacred Oath continuano a fare i Sacred Oath, con le loro atmosfere oscure e gli intricati passaggi di chitarra, esplorando però territori diversi.

Per cui, al massiccio ed oscuro US Power abbinano trame più moderne pescate dall’Alternative e dal Progressive, generando un sound sofisticato, denso, corposo ed articolato, dove il buio viene squarciato dalla luce e viceversa.

Le tre asce lavorano alla grande, ed anche se è vero che in sala d’incisione un solo chitarrista può far sembrare che ce ne siano cento, qui l’intreccio di stili si sente e l’esperienza di chi ha qualche anno di più unita alla naturale irruenza giovanile fa la differenza.

Esperienza che ha consentito di scrivere brani articolati ma non complicati da ascoltare. Nella sua ecletticità ‘Return of the Dragon’ non è un album sempre diretto, ma neanche dispersivo ed, alla fine, si ascolta volentieri dall’inizio alla fine.

Un pezzo come ‘Cthulhu Wakes’ non per caso apre l’album, accendendo subito l’interesse non solo per il titolo ruffiano (quando si menziona la creatura di H.P. Lovecraft il ciglio del metallaro medio si alza), ma per la sua andatura orecchiabile ed il coro magnetico.

Così come non a caso è stata piazzata al centro del lotto ‘Hammer of a Hungry God’, uno scuro rock ‘n’ roll canterino ad ampio spettro di fan con un’incisiva fase centrale.

Al contrario, la melodia della title-track riesce ad infondere una tale malinconia che si è inermi quando arrivano le taglienti sferzate di chitarra. Un pezzo che sa essere profondo quanto duro.

Non mancano brani più aggressivi e decisi, come ‘Last Ride of the Wicked’, l’ipnotica ‘At the Gates’ e la successiva ‘Empiress Fall’ che, con il loro taglio moderno, dimostrano che la band non ci pensa neanche a rimanere rinchiusa nel proprio passato.

Brano che preferisco ‘The Next Pharaoh’ con il suo taglio Hard Rock molto incisivo e detonante, ma anche ‘Into the Drink’ lascia il segno con la sua cavalcata d’assalto e le stilettate delle chitarre armonizzate.

Chiudiamo: sarà interessante la scaletta dal vivo del prossimo tour dei Sacred Oath, soprattutto se abbinerà questi ultimi brani con i classici del passato tipo ‘Two Powers’ e ‘The Omen’.

Per il resto, un buon passo in avanti questo ‘Return of the Dragon’, che mostra i Sacred Oath di oggi maturi ed affiatati, con qualche angolo smussato, ma va bene così. Vediamo in che direzione andranno nel prossimo futuro.

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