Recensione: Return of the Heralds
A un anno di distanza dal debutto “Emperor Rising” tornano gli svedesi (e argentini, portoghesi e tedeschi) Krilloan con un album nuovo di zecca: “Return of the Heralds”, in uscita proprio domani. Rispetto al sunnominato debutto poco è cambiato: le velocità si fanno più varie, andando a coprire uno spettro leggermente più ampio di possibilità laddove il debutto era invece concentrato su pezzi tirati, ma a parte questo i nostri continuano a proporre un classico power metal dal piglio arrembante e trionfale. Il gruppo multinazionale pesca tanto dalla scena tedesca quanto da quella della madrepatria per insaporire la propria ricetta, miscelando entrambe le tradizioni in un tourbillon divertente e cafoncello seppur non troppo personale. Ecco quindi che lungo le dieci tracce che compongono “Return of the Heralds” si percepiscono echi più o meno velati di Blind Guardian, Helloween, Hammerfall e Lost Horizon a colorare l’amalgama diretto ed impattante del gruppo, ma va detto che nonostante questa carenza di carattere (che comunque nell’immenso calderone del power metal è considerato da molti poco più di un peccato veniale) i nostri sanno comunque come scrivere musica dalla presa immediata. I pezzi che compongono “Return of the Heralds” si fanno amare, infatti, per il loro fare propositivo ed entusiasta, fieramente legato ai diktat del genere, e sono conditi da un comparto lirico che pesca a piene mani dagli immancabili cicli di Conan, Elric e dal mondo di Warhammer 40000. Il quintetto conosce indiscutibilmente la materia e ne sfrutta i clichés mettendo in mostra una buona tecnica e un feeling autentico ed appassionato, ricamando melodie enfatiche e muscolari su riff corpacciuti e fulminei per puntare su un coinvolgimento istantaneo che, nonostante mostri il fianco a qualche critica sulla lunga distanza, invoglia comunque a pigiare di nuovo play al termine dell’ascolto.
Una melodia eroica apre le danze: “Atlantean Sword” deflagra come la classica opener tutta d’un pezzo, fatta di melodie stentoree, ritmi galoppanti e cori virili. “Kings of the Iron Hill” prosegue più o meno sulle stesse coordinate aumentando, però, il tasso anthemico grazie a melodie grandiose ed un rallentamento centrale che prelude la nuova carica. Con “Blood & Fire (Born on a Battlefield)” i nostri abbassano i ritmi per omaggiare nuovamente il corrucciato cimmero (e l’immortale colonna sonora del mai abbastanza rimpianto Basil Poledouris) con una marcia scandita dall’alto contenuto di testosterone, che si lancia di tanto in tanto al galoppo per poi tornare a ritmi più contenuti. “Hammer of Wrath” è il classico inno trascinante e trionfale, dominato da ritmi pulsanti e un ritornello che si impara in tre secondi, mentre con la successiva “Avenging Son” i nostri giocano la carta del pathos. Il pezzo, pur mantenendo nella strofa un ritmo agile e determinato, rallenta nel ritornello per impennare la carica evocativa tramite il coro virile che, poi, si rifà vivo in un paio di occasioni. “The Oathpact” è un’intro dal profumo cinematografico che apre la strada alla title track, la quale torna a dispensare melodie trionfali e un tappeto ritmico dinamico e propositivo, piazzando qua e là degli ottimi guizzi. “The Kingkillers Tale” ci catapulta nel mondo di “Somewhere Far Beyond”: fin dalle prime note, infatti, è impossibile non notare il plateale omaggio (diciamo così) a una celebre ballata acustica dei bardi di Krefeld, mentre con “We Burn” si resta in Germania, stavolta per omaggiare certi Helloween. Il pezzo si sviluppa come la classica fucilata power metal, in cui melodie solari e dinamiche si fanno largo su ritmiche tirate e sporadici rallentamenti più rockeggianti, il tutto guarnito da un ritornello in cui Alex fa di tutto per emulare il buon Kiske dei tempi d’oro. “Return of the Heralds” è chiuso da “Beyond the Gates”, altro pezzo agile ed insistito il cui fare eroico viene punteggiato da melodie trionfali e cori possenti, e pone il sigillo su un lavoro che fa del temperamento caciarone e della carica propulsiva i suoi tratti distintivi.
“Return of the Heralds” è un album divertente ed immediato, che sacrifica sottigliezze e strutture complesse sull’altare del puro e semplice intrattenimento: un lavoro onesto ed accattivante che risulterà adattissimo per rimettersi in carreggiata dopo una giornata storta, ma che per la sua carenza di originalità difficilmente svetterà sugli agguerriti concorrenti.