Recensione: Return To The East Live 2016
A trent’anni dall’uscita dello storico live Beast from the East, i Dokken pubblicano un nuovo disco dal vivo, registrato ancora una volta in Giappone, in occasione dell’importante Loud Park Festival del 2016.
Se Beast from the East era la sublimazione del fenomenale quartetto di dischi pubblicati dalla band negli anni ottanta, questo nuovo Return to the East Live 2016 celebra il raro evento di vedere in azione la formazione originale al completo.
Come il titolo annuncia, si tratta dunque di un ritorno, che non può esimersi dal confronto tra ciò che è e ciò che è stato o, meglio, fu. Sì, perché i Dokken riunitisi del 2016 non sono che la pallida versione della macchina da guerra di trent’anni fa. Certo, gli anni sono passati per tutti, compreso chi vi scrive, e quante delle nostre band preferite sono oggi composte di più o meno arzilli uomini a un passo dall’età pensionabile. Ma quante di esse, pur maturate e cambiate rispetto agli anni della giovinezza esuberante, sanno ancora regalare prestazioni che fanno impallidire chi neppure era nato ai tempi del loro massimo fulgore! Beh, i Dokken purtroppo non rientrano in cotale novero; e quanto mi spiace scriverlo.
La prestazione complessiva della band è, infatti, pesantemente penalizzata dalla voce di Don Dokken, che ha perso del tutto i toni alti e sfiora il grottesco quando si avventura in quel vibrato che lo caratterizzò negli anni buoni. I cori, dal canto loro, sono invece perfetti, troppo perfetti, al punto da suonare plastificati. Per fortuna, i musicisti fanno bene il proprio dovere, a partire da George Lynch, che si dimostra un chitarrista di enorme tecnica, classe e gusto: il vero modello di riferimento del class metal. E meno male che ci sono le canzoni, che sono pezzi di storia del genere e, per quanto maltrattate da Don, risultano sempre un godimento per il rocker.
Tra tutte si distingue la qualità (anche esecutiva) di Breakin’ the Chains, che davvero suona fresca, convinta e dinamica. Al capo opposto si pongono, invece, Kiss of Death e Unchain the Night, letteralmente improponibili dai Dokken del 2016.
Tutto il disco alterna buoni momenti a cadute rovinose. Se Into the Fire si salva, ecco che Dream Warriors apre speranze che purtroppo Don castra sul nascere, risultando in un pasticcio privo di calore e sostanzialmente brutto. Se Tooth and Nail non sfigura grazie a una ritmica incalzante e un lavorio di chitarra davvero notevole, la celeberrima Alone Again è violentata da una prima parte melensa che vuole creare atmosfera ma si rivela solo una nenia zuccherosa. La sezione elettrica è invece impreziosita, ancora una volta, da un assolo meraviglioso che crea ancora qualche brivido all’ascoltatore fedele ad Alone Again dai tempi della sua pubblicazione.
Buona, infine, l’esecuzione della conclusiva In My Dreams, che almeno ci lascia un buon ricordo, compensando le delusioni patite fino a qui.
Oltre alle tracce dal vivo, il disco include anche la versione acustica di Heaven Sent e Will the Sun Rise. Se la prima passa piuttosto inosservata, la seconda, già originale nel ripescaggio dal fenomenale Under Lock and Key, si rivela una piacevole rivisitazione, non cosi fine a se stessa come potrebbe sembrare. Infine, ecco il classico pezzo nuovo, che questa volta risponde al titolo di It’s Another Day, dove i Dokken per nostra fortuna non giocano troppo a rifare i Dokken, ma indossano una veste moderna non troppo dissimile da quella degli Europe più recenti. Il risultato è una bella canzone, suonata bene e dalla melodia decisamente accattivante.
Lo avrete capito, Return To The East Live 2016 mostra pregi e pecche, queste ultime solo parzialmente nascoste sotto il tappeto della qualità di scrittura che i pezzi immortali della band trasudano, oltre che mitigate dalla mano santa di George Lynch. Purtroppo Don Dokken taglia le gambe a molte esecuzioni e, nel complesso, si respira un’aria di reunion dettata più dall’interesse (economico) che non da una reale convinzione. Ciò impatta negativamente sulla prestazione e fa rimpiangere le versioni originali delle canzoni, cui consiglio il lettore di tornare, preferendole di gran lunga rispetto alle loro ombre del 2016.