Recensione: Reveal The Change

Di Roberto Gelmi - 25 Maggio 2014 - 13:15
Reveal The Change
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Anno: 2013
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78

Quarto album in studio per i progster finlandesi, dopo quasi otto anni di silenzio e l’uscita di scena del cantante Michael Henneken. Il combo guidato dal tastierista Henrik Klingenberg, fuori dagli steccati silly e fantasy dei Sonata Arctica, realizza un album convincente, che si compone di sette tracce dal minutaggio medio-alto (come fu per il precedente Building Up The Apathy), con chiari rimandi ai maestri del progressive metal.

L’opener “The Fear of Emptiness” attacca con un tapping di basso che ricorda “Scarred” dei Dream Theater; va detto da subito, la band newyorkese aleggia in modo inconfondibile lungo tutto il platter. In questo pezzo, nello specifico, da segnalare l’uso di delay à la Falling Into Infinity, il groove di “The Root of All Evil” e la piacevole presenza degli octoban cari a Portnoy. Il brano, nel complesso incede non privo di personalità, con cambi di dinamiche, linee vocali melodiche e buoni unisoni (eccezionale quello sul finire del settimo minuto, che regge confronti con i Symphony X). Un inizio scoppiettante, che invoglia a continuare l’ascolto del disco, dopo quasi dieci minuti di prog. metal d’annata, ricco di tecnica e shredding gustoso.
No Turning Back” presenta in apertura un giro di chitarra semiacustica simile a quello di “Endless Sacrifice” dei Dream Theater (ma la vera paternità spetta al Michael Jackson di “Give In To Me”). L’oscuro e istrionico Mats Levén (ex-Therion) regala emozioni (come nel recente album solista di Gus G.) lungo bridge e ritornelli ariosi. Non manca qualche bending metal e un assolo che più petrucciano non si può. Gli ultimi secondi, con synth fatato di tastiera, lasciano l’ascoltatore in un effimero stato di grazia, subito annullato dall’incipit terremotante di “Reign of Terror”, brano più pesante dell’album. Le linee vocali alte ricordano il miglior Andy Kuntz e nella parte centrale il wah-wah della 6-corde compie miracoli. Il drumwork resta portnonyano, Klingenberg, invece, è come “sospeso” tra il dettato dei maestri Jens Johansson e Michael Pinnella. I Sonata Arctica ormai non regalano più tali virtuosismi…
Un breve interludio con pioggia scrosciante, pendolo monotono come sfondo e telefono staccato (una citazione di Scenes From A Memory?) anticipa l’attacco ululante di “Faith in me”, con Tony Kakko ospite al microfono. Già special guest con Epica e Timo Tolkki’s Avalon, il cantante dei Sonata Arctica questa volta lascia un segno positivo, sfoderando una buona grinta. Il resto del brano presenta ancora delay a iosa e un bel finale con tastiera solista.
Tempi ribattuti e hammond per la strumentale “Black Water”, con echi di “The Great Conjuration” degli Opeth. A metà brano, giusto per qualche secondo, una sveglia ansiogena ben si sposa con i ritmi dettati dal combo. Un pezzo tra Dream Theater e Magellan, con numerosi virtuosismi, sorretti da un main-theme ossessivo a fare da basso continuo.
Un ottimo riff di basso apre “Burning Shine”, ma non siamo sui livelli di “My Domination” dei Symphony X. Testi cadenzati nelle strofe e un refrain sguaiatamente vitale come da tradizione Masterplan. Levén ha il dono di rendere oro colato ogni brano che interpreta. Più che passabile anche il finale in crescendo.
L’album si chiude sontuosamente con la traccia più lunga del lotto, “Through My Prison Walls”. In apertura di nuovo un giro melodico vicino al “sacrifico senza fine” theateriano; Mike DiMeo non incanta, appare troppo forzato, così come nella sua breve militanza nella band di Grapow. In definitiva un mid-tempo godibile con un’azzeccata parte strumentale all’ottavo minuto e un assolo di chitarra che fa del wah-wah l’attuale punto di forza del combo finnico .

Le voci silenti hanno rotto un lungo digiuno fatto di laconismi immeritati: simili band non vanno considerate meri side-project, bensì gruppi dal grande potenziale. Il gruppo finlandese punta su una produzione senza sbavature e ha un occhio di riguardo per i dettagli (non solo sonori, si veda anche il bell’artwork). Ci sono ancora difetti (una certa ripetitività, l’eccessivo citazionismo, una line-up che si appoggia a special guest), ma questa volta il risultato è più che incoraggiante: ben venga il cambiamento!

    
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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