Recensione: Revenge of the Phoenix
Formatisi agli inizi del nuovo millennio, i perugini Hellraiser, dopo una serie innumerevole di cambi di formazione, nel 2014 arrivano all’agognato traguardo del disco di debutto. Per realizzare questo importante capitolo della propria carriera, la band umbra opta per l’autoproduzione: Revenge of the Phoenix, questo il titolo dell’opera, può così venire alla luce. Dopo la pubblicazione del debut album, l’act perugino inizia un’intensa attività live che, nel 2015, frutterà le attenzioni dell’etichetta americana Sliptrick Records. La label si occuperà così della distribuzione, sia fisica che digitale, della ristampa di Revenge of the Phoenix.
Dopo le dovute presentazioni di rito, iniziamo a parlare di quello che a noi interessa di più: la musica. La proposta degli Hellraiser può facilmente essere descritta come un heavy metal old school, in cui fanno spesso capolino partiture power. I Nostri riescono a mescolare influenze di band come Judas Priest e Iron Maiden con elementi tipici della scuola tedesca, Rage in primis, e con la lezione impartita dai Riot nei primi anni Ottanta. Una proposta tutt’altro che originale, ma che risulta dannatamente efficace grazie a un songwriting curato e mai banale, carico di entusiasmo e passione, distante anni luce dalla semplice riproposizione di idee altrui, dalle cui note viene sprigionata tutta la voglia di heavy metal insita nella band.
Inserendo Revenge of the Phoenix nello stereo e pigiando il tasto play, dopo un breve intro, veniamo catapultati direttamente negli anni Ottanta con la terremotante In the Name. La canzone è la perfetta opening track: energica, melodica, con una linea vocale trascinante e facilmente memorizzabile; una traccia studiata alla perfezione per i live. Bastano i cinque minuti di In the Name per mettere subito in evidenza le capacità degli Hellraiser, sia per quanto riguarda il songwriting che per il lato prettamente tecnico. Il primo tassello di un disco convincente, che trova i suoi picchi in capitoli come Nightmare e Way of the Brave, dove la formazione di Perugia dimostra di trovarsi a proprio agio sia nei capitoli in cui bisogna spingere sull’acceleratore, che in capitoli più epici e cadenzati. La prestazione dei singoli è di prim’ordine e va sicuramente citata la prova di Cesare Capaccioni al microfono. Il singer, il cui stile è chiaramente debitore a un certo Rob Halford, fa ciò che un cantante heavy metal deve fare, senza incertezze e con la giusta dose di cattiveria. Le linee vocali risultano sempre efficaci, in particolare i ritornelli, quasi sempre capaci di far decollare ogni singola traccia. Le chitarre di Brozzi e Tanzi sono precise come un orologio svizzero e tracciano riff a cui difficilmente si può resistere, esibendosi poi in ottimi assoli in cui i due axeman danno il via ad avvincenti duelli degni dei migliori Priest e Maiden. A fare la differenza, però, è la sessione ritmica. Il basso di Riccardo Rogari, sostituito da Francesco Foti dopo la pubblicazione dell’album, dona un groove come solo i grandi sanno fare e la batteria di Perugini è l’autentico valore aggiunto del quintetto umbro. Grande performance la sua che evidenzia un batterista completo, abile sia di braccia che di gambe, dotato di buon gusto negli arrangiamenti, in grado di donare un’ottima dinamica alle singole tracce, capace di valorizzare il guitarwork tramite dei giusti accenti.
Un altro aspetto positivo di Revenge of the Phoenix è la produzione, che riesce nel compito di esaltare la prestazione dei singoli. Un prodotto potente e diretto, ma volutamente carico di quel gusto retrò, che ben si sposa con la proposta degli Hellraiser. Frutto di un lavoro maniacale, svolto in fase di registrazione presso i Barfly Studio, di proprietà dello stesso Capaccioni, e del processo di mixing e mastering curato da Marco Milli presso i Direct Sound.
Certo, non possiamo gridare al miracolo, stiamo pur sempre parlando di una compagine dedita a una proposta che è figlia diretta dei grandi nomi degli anni Ottanta, di un disco che, dopo un inizio da urlo, perde qualche colpo nella sua parte centrale, per poi rialzarsi nel finale. Quello che però colpisce degli Hellraiser, come già citato in precedenza, è la passione e la voglia di heavy metal che scaturisce da ogni singola traccia di Revenge of the Phoenix. Una componente che, sommata alle capacità tecnico-compositive del quintetto e all’esperienza maturata nel corso degli anni, rendono gli Hellraiser il piatto perfetto per chi vive di pane e heavy metal. Se i Nostri sapranno migliorare qualche piccola sbavatura e mantenere inalterata la carica che ha contraddistinto il debut album, possiamo tranquillamente dire che l’Italia ha trovato dei nuovi guerrieri pronti a difendere la fede del metallo più puro.
Marco Donè